Calabria, terra di illeciti, partite truccate, giocatori, allenatori e dirigenti minacciati di morte. Tutto questo accade in questo lembo di nazione martoriata dalle cosche e dalle\’ ndrine. Qui si può morire anche per aver segnato un gol che non si doveva. Qui incendiano le autovetture di calciatori dilettanti, perché la domenica hanno segnato un gol non previsto agli avversari. Le \’ndrine locali controllano il calcio dilettantistico calabrese, dove la possibilità di ripulire soldi sporchi è molto appetita.
E l\’operazione che ieri mattina è stata portata a termine dalla Guardia di Finanza e dai carabinieri di Reggio Calabria ne è l\’esempio più lampante. Due delle persone coinvolte nell\’ambito dell\’operazione che ha portato al sequestro di beni per 190 milioni, riconducibili al clan Pesce di Rosarno, avevano interessi nel mondo del calcio. Si tratta di due latitanti: Francesco Pesce di 33 anni, detto \”Cicciu Testuni\”, attuale reggente della cosca, e Marcello Pesce, 47 anni, detto \”u ballerinu\”, fra i capi della consorteria. Il primo, attraverso prestanomi, controllava prima la squadra di calcio di Rosarno, e, attualmente, dopo una fusione tra i due club, il Cittanova-Interpiana. Marcello Pesce viene indicato come socio occulto del Sapri calcio. Le due formazioni militano nel girone I della serie D.
Ma in Calabria la storia delle \’ndrine dentro le società calcistiche è vecchia. Uno dei fatti più eclatanti fu quel minuto di silenzio prima della partita. Un vero e proprio atto di rispetto verso Pasqualino Arena, padre padrone della squadra. Nei giorni precedenti, con tre colpi di bazooka, ignoti avevano ucciso don Carmine Arena, boss di Isola Capo Rizzuto, capo indiscusso anche della squadra di calcio. Ma quella non fù la sola occasione di uno \”strano\” minuto di silenzio. Anche allo stadio di Locri avevano già ricordato un boss ammazzato, in una gara interregionale. E, sempre a Locri, incendiarono le macchine di tre giocatori della locale squadra di calcio. Le indagini della magistratura scoprirono che dietro gli attentati c\’era qualcuno che voleva taroccare la gara, quella finita in pareggio con il Crotone. Il fatto più clamoroso nel perverso intreccio tra calcio e cosche successe a Rizziconi, comune sciolto per infiltrazioni mafiose. I tre commissari prefettizi fecero costruire su un terreno, confiscato alla famiglia \”locale\” di Teodoro Crea, boss della zona, un campo di calcio, da destinare ai giovani del luogo. Ma siccome su quel terreno era del boss, mai nessuno si azzardò ad andare a giocare, cosi oggi a distanza di anni quel campo costruito è completamente distrutto e abbandonato. Usa così la \’ndrangheta, quando ha interessi.
È nel mondo pallonaro dilettantistico calabrese, ne ha abbastanza. La \’ndrangheta sta in cielo, in terra e in ogni luogo: anche nei campi di calcio. Gioca, corre, investe, comanda quasi sempre. Come Cosimo Leotta, all\’epoca dei fatti presidente del Guardavalle. Uno che durante la settimana partecipava ai summit mafiosi, per decidere, appalti, estorsioni ed altro, poi la domenica in panchina, \”comandava\” su arbitri e avversari. Il suo nome è iscritto nell\’operazione \”Mytos\”, condotta dalla Dda di Catanzaro. La sua latitanza finì dopo mesi di ricerche. Ma in Calabria, alcuni anni fa, successe qualcosa di unico: la Rosarnese vinse il campionato di eccellenza è cosi approdò tra i dilettanti dell\’interregionale. Avrebbe dovuto scontrarsi con la squadra dell\’Astrea, quella sovvenzionata dal Ministero di Grazia e Giustizia, quella per intenderci della Polizia penitenziaria. Nulla di strano, se non fosse che il presidente della Rosarnese era lo stesso Marcello Pesce, latitante ancora, con il pallino del calcio a cui stanno a cuore le sorti della sua squadra. Calabria, terra di malaffare e anche l\’unica regione colpita da calcio scommesse a livello dilettante, con le società del Bagaladi e dello Scalea.
Ma che il calcio in Calabria è corrotto lo sanno anche nella lega di serie A e B e delle infiltrazioni mafiose nelle società di calcio si era interessata persino la direzione investigativa antimafia, dopo l\’arresto del presidente del Cosenza Calcio, Paolo Fabiano Pagliuso. Lo disse anche l\’allora sostituto della dna Vincenzo Macrì, attuale procuratore generale di Ancona. \”Ci siamo accorti di una particolare attenzione della \’ndrangheta verso il calcio minore. Più che gli affari, i boss cercano il consenso\”, furono le parole dell\’alto magistrato.
E la storia è ancora lunga. Anche con nomi eccellenti. Come quello di Giuseppe Sculli, attaccante della Lazio, nipote prediletto del \”mammasantissima \” della locride e capo indiscusso della \’ndrina calabrese Giuseppe Morabito detto \”\’u tiradrittu\”, arrestato quattro anni fa dopo oltre 15 anni di latitanza. Il giovane fu squalificato per otto mesi per aver tentato di combinare una gara, quella tra Crotone, dove giocava, e Messina, dove sarebbe andato a giocare. Nell\’inchiesta anche altri giocatori calabresi della locride. E che dire della squadra del San Giovanello di Reggio con presidente Nino Franchina, arrestato per associazione mafiosa. A volte l\’interesse della \’ndrangheta per manifestazoni sportive è stato spettacolare, come anni fa quando i muri delle vie centrali di Reggio furono coperti da manifesti che annunciavano un evento organizzato dal Coni, il \”Memorial Fortunato Maurizio Audino\”. Peccato che Fortunato Maurizio Audino fosse un imprenditore edile con precedenti penali per traffico di stupefacenti ed associazione mafiosa, saltato in aria sulla sua auto nel centro della città. A Bianco, nel 2006, venne ucciso il centravanti del Locri, Vincenzo Cotroneo. Infine, lo scorso inverno, in un\’inchiesta della Dda di Reggio Calabria vennero arrestati per associazione mafiosa e altro il direttore sportivo della Valle Grecanica, Eugenio Borghetto e Natale Ianni. Anche la loro, come le due società del clan Pesce sequestrate oggi, era una squadra che milita nel campionato di serie D girone I. (tratto da TMNews)
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