Riportiamo l\’articolo-intervista del giornalista Gino Consorti, apparso sul mensile L’Eco di San Gabriele e titolato \”L’incredibile storia dell’imprenditore Pino Masciari. A testa alta contro la ‘ndrangheta\” (Pagg1–12–13–14–15–16–17–18).
La sua adorata madre, i fratelli e le sorelle di una famiglia numerosa e particolarmente legata; il lavoro che aveva conosciuto sin da bambino quando suo padre, costruttore edile, lo portava spesso nei cantieri e dove un giorno, tra l’odore del calcestruzzo appena impastato e il rumore di una betoniera, si addormentò in una vasca da bagno; il suo paese, Serra San Bruno, dov’era stimato e rispettato; la sua Calabria, la terra che aveva dentro e dove avrebbe voluto trascorrere la vita realizzando i suoi sogni e quelli della sua famiglia. Affetti e speranze che in un attimo si sono trasformati in un incubo interminabile.
Il 18 ottobre del 1997 è appena nato, quando Pino Masciari, imprenditore calabrese, sua moglie Marisa, medico odontoiatra e i figli Francesco e Ottavia di appena 2 e 1 anno, scortati dai carabinieri “fuggono” alla volta di una destinazione a loro sconosciuta. Erano stati rassicurati sulla brevità di quella “separazione” dalla loro terra, un breve lasso di tempo, pochi mesi. In realtà i letti disfatti quella notte sono ancora lì ad aspettarli…
Questa è una storia di ‘ndrangheta e del Programma di protezione speciale in cui si è ritrovato Pino Masciari dopo aver denunciato, facendo nomi e raccontando fatti circostanziati, i soprusi e le vessazioni subiti dalla malavita collusa con il mondo della politica. Ciò che doveva rappresentare una sorta di liberazione, però, col passare dei giorni, dei mesi e degli anni ha assunto sempre più i contorni di un inferno. Per lui e per la sua famiglia.
Le sue aziende edili che davano lavoro a oltre 200 famiglie sono fallite; l’avviato studio odontoiatrico della moglie Marisa abbandonato; lui e la sua famiglia sballottolati da una località all’altra senza avere una nuova identità, nuovi documenti e nell’impossibilità di dichiarare il proprio cognome; impossibilitati a telefonare, se non solo per segnalare una particolare emergenza al 112 o al 113; impossibilitati a spiegare a famigliari e amici il perché della loro sparizione; impossibilitati ad avere una minima vita sociale. E poi ancora accompagnato a testimoniare nei processi in Calabria con veicoli non blindati e con la targa della località protetta; nei tribunali sistemato in mezzo ai numerosi imputati da lui denunciati; intimidito; lasciato senza scorta in diverse occasioni; registrato negli alberghi con il suo vero nome e cognome, eccetera, eccetera. E dire che erano stati fatti sparire in fretta e furia per l’imminente pericolo di vita che correvano. Insomma, dei morti viventi il cui unico torto era stato quello di schierarsi dalla parte della legalità. Sì, perché Pino Masciari aveva detto no con forza al 6% da versare ai politici e al 3% ai mafiosi, alle assunzioni pilotate, alle forniture di materiali e di manodopera imposta da qualche capo-cosca o da qualche amministratore, a costruzioni di fabbricati e di uffici senza percepire alcun compenso, a regali di appartamenti e all’acquisto di autovetture. È stato definito il principale testimone di giustizia italiano dal procuratore generale Pierluigi Vigna, ma visto il calvario vissuto per oltre tredici anni più che un testimone è sembrato un criminale…
Il 27 ottobre 2004 la commissione centrale del ministero degli Interni gli notifica la revoca del programma speciale di protezione. Ma come farà a tornare in Calabria per testimoniare nei processi ancora in coso? Che ne sarà della sua famiglia? Da qui il ricorso al Tribunale amministrativo regionale che, dopo ben 50 mesi invece che 6 previsti dalla legge (45/2001 art. 10 comma 2 sexies), dice che Pino Masciari ha ragione ordinando al ministero dell’Interno di attuare le delibere su sicurezza, reinserimento sociale, lavorativo, risarcimento dei danni. Trascorsi alcuno mesi, però, non ricevendo alcuna comunicazione, Masciari annuncia la volontà di cominciare lo sciopero della fame e della sete. Nel frattempo, però, non è più solo. Al suo fianco, infatti, c’è una folta “scorta disarmata”. Vari esponenti della società civile che hanno scelto di stare dalla sua parte. Dagli amici di Pino Masciari, a quelli di Libera di don Luigi Ciotti fino alla numerosa e rassicurante schiera di blogger, il popolo della rete.
Questo e tanto altro Pino e Marisa Masciari hanno voluto raccontarlo in un bellissimo volume che in pochi mesi ha esaurito la prima tiratura ed è già in ristampa. S’intitola Organizzare il coraggio- La nostra vita contro la ‘ndrangheta (add Editore, Torino, pp. 270 euro 15,00). Un testo che andrebbe adottato nelle scuole come straordinario strumento di educazione alla legalità, al senso civico e all’amore della verità. Con la certezza che uniti si vince.
Incontro Pino Masciari in una calda giornata di primavera. Al nostro colloquio assiste un uomo della sua scorta, sistemato in prossimità della porta della stanza. Sì, rifletto amaramente, è proprio una bella giornata, soprattutto però per le persone libere…
Signor Masciari, cosa causò la vostra fuga, in piena notte, da Serra San Bruno?
Ci dissero che eravamo tutti in grave pericolo di vita.
Chi vi avvertì di tale rischio?
Prima ci convocò la direzione distrettuale antimafia di Catanzaro, successivamente vennero a trovarmi alcuni funzionari del ministero dell’Interno del servizio centrale di protezione. Mi ribadirono la necessità di lasciare immediatamente la Calabria perché eravamo in pericolo di vita. Lo stesso, dissero, non può garantirvi l’incolumità se restate in Calabria.
Cosa aveva combinato per mettere a grave rischio la vita sua e della sua famiglia?
Avevo presentato delle denunce alla direzione dell’antimafia.
Contro chi?
Denunciai un sistema diffuso di corruzione che di fatto, ormai, era diventato normalità… Non era infatti solo un problema della mia Calabria. Nel 1992 era scoppiata Tangentopoli e c’erano state anche delle gravi stragi di stato come quelle dei giudici Falcone e Borsellino. In Calabria, in quegli anni, si chiuse la seconda guerra di mafia, iniziata nel 1980 e conclusasi appunto nel 1991 con oltre 800 morti.
Una guerra per ottenere cosa?
Le mafie volevano la supremazia sul territorio, soprattutto dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989. La loro “industria” aveva intuito che si sarebbero potuti fare grossi affari anche nei Paesi dell’Est. E io, che avevo iniziato a lavorare anche lì, a Berlino, Dresda, Lipsia mi ritrovai braccato dalla mafia non solo in Calabria.
Cosa chiedevano?
Di trasformare la mia azienda sana in una sorta di società che facesse da tramite per i loro affari. Quando però videro che con grande determinazione dissi no alle loro richieste estorsive, misero in atto una serie di minacce, intimidazioni e vessazioni.
Di che tipo?
Dal semplice furto o danneggiamento di alcuni mezzi di lavoro, ai colpi di lupara. Uscirono addirittura incappucciati armati di pistole e fucili intimidendo i miei stessi operai. Se il vostro datore di lavoro non viene qui a regolarizzare la nostra richiesta estorsiva del 3%, dissero a chiare lettere ai miei dipendenti, è meglio che non veniate più a lavorare perché rischierete la vita…
Il 3% per cento sui lavori era la richiesta della mafia. Poi, però, come sottolinea nel libro, c’era da soddisfare anche quella della politica che era del 6%…
Proprio così. L’organizzazione politica-istituzionale massonica voleva il 6%. Loro gestivano la burocrazia, la parte amministrativa, controllavano le banche attraverso i consigli di amministrazione di cui facevano parte.
Anche a loro disse no…
Precisamente.
Con quali conseguenze?
Loro non ti uccidono, non ti sparano. Ti rallentano però gli stati di avanzamento, non ti fanno più arrivare i soldi dalle banche, ti fanno inginocchiare economicamente. Per coprire le spese ho dovuto prosciugare la liquidità che avevo a disposizione. Avevo cantieri sparsi in tutta la Calabria e oltre duecento famiglie dipendevano dalle mie aziende. Ne avevo due: quella di mio padre, dove esercitavo nel privato e quella messa in piedi da solo. Essa rappresentava il sogno della mia vita.
Cioè?
Diventare una ditta affermata anche fuori i confini nazionali.
A quanto ammontava il suo fatturato?
A diversi miliardi… All’epoca delle denunce cercavo uno stato che non c’era e di conseguenza m trovai dinnanzi a un bivio: o cedevo alle richieste della mafia e quindi pagavo, oppure fermavo le mie aziende.
Cosa fece?
Credevo che fermando le mie imprese gli enti appaltanti – all’epoca avevo oltre 25 miliardi di vecchie lire di lavori in Calabria – si facessero sentire o vedere in qualche modo…
Invece?
Passò tutto sotto silenzio. Anche i miei dipendenti non fecero più di tanto.
In pratica fu costretto a chiudere…
Purtroppo sì. Nel settembre del 1994 licenziai i dipendenti e chiusi l’azienda. All’epoca Cosa nostra cercava di delegittimare i governi che si avvicendavano, dal pentapartito si era passati a una sorta di bipolarismo e delle macerie della prima Repubblica era venuta fuori una diffusa corruzione. Di conseguenza cosa poteva interessare allo stato la denuncia e quindi la richiesta d’aiuto di un imprenditore del sud? Avevano altri problemi a cui pensare…
All’epoca della fuga dal suo paese i vostri due filgi erano piccoli e quindi, per fortuna, non doveste affrontare il peso di dar loro spiegazioni di quanto stava accadendo. Oggi, però, Ottavia e Francesco hanno rispettivamente quasi 15 e 16 anni. Come gli avete spiegato l’infanzia rubata?
Loro non chiedono mai del passato perché sono cresciuti senza farsi domande. Tuttora fanno enormi sacrifici per inserirsi nel quotidiano. Sono cresciuti sapendo di non poter dire dove abitavano, da dove venivano, come si chiamavano…
Cosa si risponde a una figlia che dovendo fare un tema, chiede a sua madre cosa significhi la parola nonna? Oppure al figlio che non sa dire il proprio cognome agli amichetti di gioco?
Si resta senza parole. La prima volta che mio figlio vide la nonna mi chiese: “Papà, chi è questa donna che mi accarezza tanto?”. Non sapeva cosa significasse uno zio o un parente. All’asilo non poteva dire neanche il cognome, per tutti era Checco. Per loro tutto questo era la normalità.
Anche oggi?
Purtroppo sì. Con la morte nel cuore dico che i miei figli non sanno correre come gli altri…, non fanno vita sociale, ancora oggi vivono nella solitudine. Si chiudono in camera, il loro mondo è lì visto che sono cresciuti così. Non riescono a uscire, giocare con altri, non l’hanno fatto prima e non lo fanno adesso. Per loro è normale vivere in casa oppure uscire con una macchina blindata, fare una vita rinchiusa. L’atroce interrogativo mio e di mia moglie è pensare a come reagiranno il giorno in cui scopriranno cosa significhi una vita normale. Cosa significhi essere una famiglia normale, festeggiare il Natale con parenti e amici, andare alle feste di compleanno, incontrare gente, frequentare gli amici del fratello e viceversa…
Il programma di protezione adottato nei vostri confronti, osserva lei amaramente nel libro, sembrava una punizione anziché un servizio dovuto dallo stato…
Lo stato non era preparato a gestire persone che, solo per un alto senso morale e civico, avevano deciso di denunciare il malaffare. L’ex articolo 10 della legge 82/91 era preparato a garantire un sistema di protezione a chi veniva a delinquere, parliamo cioè dei pentiti e dei cosiddetti collaboratori di giustizia. Non era preparato per le persone per bene. Addirittura i funzionari del ministero mi dissero che si sarebbe trattato di un breve lasso di tempo… sei mesi, massimo un anno. Dissero che avrebbero studiato il nostro caso perché si trovavano impreparati.
Invece?
Quel lasso di tempo è durato quattordici anni! Oggi, allora, dico che forse si è trattata di una punizione.
Di che tipo?
Ne puniamo uno per domarne 500 mila, un milione… L’Esempio che lo stato ha dato è che seguire le orme di Pino Masciari significa perdere l’azienda. La mia azienda, quella che concorreva agli appalti delle opere pubbliche, è stata dichiarata fallita da un presidente del Tribunale di Vibo Valentia per una somma irrisoria. Parliamo di 134 milioni di vecchie lire. Tra attrezzature e beni immobili io avevo un patrimonio di decine di miliardi… Dopo dieci anni, però, quel presidente è stato arrestato per collusione con la ‘ndrangheta e qualche mese fa condannato a 14 anni di reclusione… Però Pino Masciari non fa più l’imprenditore.
Gli effetti delle sue denunce hanno visto finire alla sbarra anche un giudice del Tribunale amministrativo?
Sì, mi chiedeva la tangente del 6%. Era un giudice del Tar che nel 2001 era stato nominato pure consigliere di stato. È stato condannato in tutti e tre i gradi di giudizio e interdetto a ricoprire incarichi nei pubblici uffici. Inoltre i boss che ho denunciato erano tutti di primissimo piano, anche mafiosi che sono riusciti a eleggere anche dei parlamentari che li rappresentassero…
Come siete riusciti a vivere tutti questi anni da clandestini, senza documenti e una nuova identità, sbattuti da una parte all’altra dell’Italia?
È stata durissima, avevamo le lacrime agli occhi ogni giorno. I governi si sono avvicendati ma lo stato, purtroppo, è risultato sempre troppo assente. Forse all’epoca si era “ignoranti” in materia, ma ciò che mi faceva assai male era vedere, quando entravo nelle aule dei tribunali a testimoniare, che alcuni degli avvocati dei mafiosi, smessa la toga, si recavano in parlamento dove erano membri di commissioni. Compresa quella della giustizia… Ciò mi addolorava tantissimo perché io, che ero la parte offesa, spesso non trovavo neanche un legale che mi potesse rappresentare. A fianco non avevo l’associazionismo antiracket, non c’erano neanche le leggi specifiche. Oggi, invece, per l’imprenditore che denuncia è diverso.
Il procuratore nazionale antimafia, Pierluigi Vigna, nel 1999 davanti alla commissione parlamentare antimafia la definì “il principale testimone di giustizia italiano”. Lei, però, come racconta nel libro, si sentiva braccato dai criminali e abbandonato dallo stato al punto di dire al procuratore che senza un suo intervento risolutore sarebbe ritornato in Calabria. Questo nella speranza che l’avessero ammazzato e quindi far capire a qualche burocrate che il sangue non è inchiostro…
Vedevo l’indifferenza, mia moglie s’era ammalata di bulimia, i miei figli avevano perso il sorriso, quella non era la vita che avevo scelto per loro. Quella era una vita imposta, senza libertà ma piena di vessazioni. Chi aveva il compito di vegliare sulla nostra incolumità spesso si sentiva autorizzato addirittura a maltrattarci, come se noi fossimo dei prigionieri o dei criminali. Non potevo, dunque, consentire tutto ciò. E poi…
Cosa?
Scappare di notte senza dire niente a nessuno… Un imprenditore amato e stimato che dava lavoro a centinaia di persone, sua moglie, medico odontoiatra apprezzato e con un attività bene avviata e due bambini di 1 e 2 anni che in una notte si ritrovano ad essere nessuno… Dal tramonto all’alba ti risvegli in un altro mondo che non hai scelto tu. Un mondo dove non puoi dire al tuo vicino chi sei, come ti chiami, non puoi salutare nessuno, non puoi telefonare a nessuno, non puoi gridare e chiedere aiuto a nessuno… Ogni giorno che passava vedevo i bambini sempre più spenti, mia moglie si distruggeva con loro e per non farsi vedere piangeva sotto la doccia… Dopo la scomparsa di mio padre, in casa eravamo nove figli, io, che avevo cercato di rappresentare la sua continuità in famiglia, ero fuggito di notte senza dire niente a nessuno, né a mia mamma né ai miei fratelli… il mio cuore era finito sotto una pietra, mi sentivo un vigliacco, uno che aveva tradito la loro fiducia. Ho lasciato i miei fratelli che frequentavano le scuole, a me spettava il compito di mandare avanti le aziende. Ma un giorno sono sparito…
È tornato molte volte in Calabria come testimone in vari processi. Nel suo racconto, però, sottolinea come tra i condannati non compaiano uomini politici…
Proprio così. Delle mie denunce solo una parte è venuta fuori…
Come mai?
Questo dovrebbe chiederlo ai chi aveva l’obbligo e il dovere di fare certe cose. A me sorgono altre domande…
Tipo?
Come mai sono rimasto più volte, a Crotone, a Catanzaro e a Lamezia senza scorta e senza tutela? Come mai durante i processi mi trasportavano in macchine con la targa della località dove io vivevo e che doveva restare segreta? Come mai nelle aule bunker dei tribunali mi facevano sedere insieme agli imputati da me accusati?
Secondo lei perché?
Era un’intimidazione? Non dovevo andare a testimoniare? Una volta un tenente dei Carabinieri, a Crotone, mi consigliò di non andare in udienza a testimoniare. Ma chi glielo fa fare, mi disse…
Nel gennaio 2009 morì sua madre. Per questioni di sicurezza le chiesero di non partecipare al funerale…
Fui avvisato del peggioramento della salute di mia madre il 31 dicembre 2008. Subito il servizio di protezione organizzò il viaggio in aereo e la sera stessa ero da lei. Il temo di abbracciarci , lo scorrere di una lacrima sul suo viso ed entrò in coma. Il 4 gennaio cessò di vivere. Venne a trovarmi un alto funzionario del ministero dell’Interno che, dopo avermi dato le condoglianze, mi disse che i suoi “capi”, a Roma, mi consigliavano di non partecipare al funerale perché sarebbe stato troppo alto il rischio.
Cosa rispose?
Per oltre tredici anni, dissi, mi avete privato dell’affetto, della vicinanza di mia mamma, di stare almeno un solo giorno a pranzo da lei, di abbracciarla, di vederla almeno una volta accompagnare i miei figli a scuola… No, risposi, adesso non potete chiedermi anche questo. Oggi, aggiunsi, è il momento in cui lo stato deve dimostrare di esserci. E se c’è dev’essere al mio fianco perché io andrò a dare l’ultimo saluto a mia madre.
Quel giorno lo stato ci fu?
Sì, dimostrando che quando vuole sa esserci. Già in passato avevo chiesto di ritornare nella mia terra. Lì avevo un’altra azienda e volevo riappropriarmi della mia vita, come anche mia moglie e i miei figli. Nel 2004, dunque, feci una domanda al ministero dell’Interno che, qualche mese dopo, mi rispose che sussistevano gravi profili di rischio e quindi non potevano autorizzare il mio ritorno. Se l’avessi fatto di mia spontanea volontà sarebbe potuta scattare la revoca del servizio di protezione.
Come prese quel diniego?
Mi sono sentito un deportato, l’unico italiano esiliato. Ero il numero di matricola 1663, avevo perso le mie aziende, le mie libertà e non ero sicuramente un esempio per gli altri. Dopo tre mesi, comunque, pur non avendo disubbidito mi revocarono il programma di protezione.
Cosa pensò in quel momento?
Che forse era arrivato il tempo di saldare il conto… I tribunali addirittura non potevano più convocarmi in quanto essendo uscito dal programma di protezione non potevo più usufruire degli accompagnamenti scortati.
La revoca del programma di protezione vide per fortuna l’arrivo delle scorte “disarmate” degli amici di Pino Masciari, dell’associazione Libera di don Ciotti e di tanti blog che, di fatto, si sostituirono allo stato…
Gli amici di Libera e don Ciotti li ho conosciuti a Torino in un incontro pubblico dove c’era anche il procuratore Gian Carlo Caselli. Mi consegnarono uno scatolone pieno di messaggi e di mail di solidarietà e sostegno. Pensi che soddisfazione per uno che per tanti anni non aveva potuto ricevere neanche una lettera… Per fare un semplice fax o un telegramma dovevo andare fuori dalla regione dove vivevo… In quel momento mi resi conto che non ero più solo, che la società civile si era accorta dell’esistenza della famiglia Masciari. Si creò uno straordinario movimento trasversale di amici di Pino Masciari. Tanti giovani si recarono anche al ministero dell’Interno e compilando i moduli e allegando le fotocopie dei loro documenti di identità chiesero di aggiungere al loro nome quello di Pino Masciari… Hanno fatto tantissimi sit-in nelle prefetture, al Parlamento, al Quirinale…
A proposito di Quirinale, lei nel 2009 dichiarò che avrebbe iniziato lo sciopero della fame, dinanzi la sede del Presidente della Repubblica Napolitano, per protestare contro la mancata applicazione della sentenza emessa dal Tar il 29 gennaio di quello stesso anno che decretava il suo reinserimento nel programma speciale di protezione…
Faccio prima una premessa. Per tanti anni tra il potere legislativo, giudiziario ed esecutivo c’è stato una sorta di silenzio-assenso. Poi, però, è scoppiato quello che sappiamo e quei magistrati che si sono schierati, al pari di alcuni politici, sono stati subito emarginati, delegittimati e alcuni anche eliminati fisicamente. Tornando alla sua domanda, impugnai le delibere sulla revoca della protezione. Il Tar annullò quelle delibere ma non fu data attuazione alla sentenza. Ecco, allora che un giorno, nel corso della cerimonia della cittadinanza onoraria conferitami dal Comune di Pinerolo, feci protocollare agli atti una mia dichiarazione di volontà-testamento dove annunciavo che mi sarei lasciato morire di fame e di sete se il Quirinale non avesse dato attuazione a quella sentenza. Con alcuni amici di Pino Masciari mi presentai davanti al Quirinale e poco dopo fui convocato da una delegazione del Presidente Napoltano, con il suo alto senso dello stato emise un comunicato stampa e da allora con il Viminale abbiamo concordato la mia fuoriuscita dal programma speciale di protezione e oggi con il loro aiuto stiamo cercando di ricostruirci una nuova vita.
Guardandosi indietro che bilancio viene fuori?
La mia esistenza si può dividere in tre fasi: quella da imprenditore, una vita dove non sono stato nessuno e quindi una non vita, e una nuova vita che sto cercando di ricostruire insieme alle istituzioni.
Chi è oggi Pino Masciari?
Un uomo normale.
Si sente un uomo libero?
Cosa intende per libero?
Libero di fare tutto ciò che vuole. Ad esempio in questa bella giornata fare una lunga camminata.
Io vivo sotto scorta in quanto sono ancora a rischio di vita. Lo sono dal dicembre 2009. Prima, invece, vivendo i località protette e segrete, che poi in realtà non lo erano…, non avevo nessuno a proteggermi. Gli ultimi due attentati nei miei confronti risalgono al 20 luglio 2009, quando misero una bomba sul davanzale del mio ufficio, e un mese dopo, il 19 agosto, quando mi ritrovai due persone in casa…
La minacciarono?
No, erano circa le tre del mattino e mi svegliai di soprassalto. C’erano due uomini che mi guardavano dal fondo del letto… Per il terrore non riuscii neanche a gridare, pensai che stessi per morire.
Invece?
Mi alzai dal letto e a quel punto i due lasciarono la stanza e attraverso il balcone si dileguarono. Io corsi subito nella stanza dei miei figli e contemporaneamente gridai a mia moglie di telefonare al 112. Per lo spavento mi sembrò di non vederli ma una volta tornato indietro li trovai abbracciati a mia moglie. Poco dopo arrivarono i carabinieri e la scientifica. In casa non mancava nulla, avevano voluto solamente spaventarci. A mio avviso hanno voluto mandarmi un segnale.
Cioè?
Ti prendiamo quando vogliamo… Se mi uccidessero adesso che sono conosciuto e stimato dalla società civile e dalle istituzioni tutte, susciterebbero una specie di terremoto. E credo che oggi nessuno lo voglia… Se le mafie esistono è perché una parte della politica ancora glielo permette. Loro dispongono di ingenti capitali, è l’unica industria che riesce a reperire una certa liquidità e non conosce la disoccupazione.
Lei di cosa vive oggi?
Al momento sono un imprenditore disoccupato. Qualcosa però faccio, sono consulente per il ministero dell’Interno per i piani Pon (Progetti nazionali operativi per a sicurezza per il sud).
C’è ancora qualche processo pendente dopo le su denunce?
No, sono finiti tutti con diverse condanne.
La coraggiosa scelta sua e di sua moglie di dire no alla ‘ndrangheta ha segnato comunque, in maniera indelebile, la vostra vita. Alla luce di quanto vissuto, rifarebbe tutto se potesse tornare indietro?
Quella mia scelta la rinnovo ogni giorno facendo conoscere la mia storia nelle scuole, nelle università, negli incontri pubblici. Non ho mai pensato di tornare indietro. Di tornare nella mia terra invece sì, ma continuando sempre lungo la strada della denuncia e con a fianco lo stato.
Quanto è stata importante la fede in questo vostro calvario?
Tantissimo. Mia moglie ripete sempre che chi veglia veramente su di noi è il Signore.
La sua fiducia nello stato era maggiore all’epoca in cui decise di diventare testimone di giustizia oppure oggi?
Una volta lo stato era più assente e tante cose non le capiva. Oggi è diverso, oggi lo stato è più preparato a fronteggiare il sistema mafioso. E anche la società civile ha preso più coscienza. Se l’imprenditore oggi vuole sottostare alle regole mafiose è perché ci trova convenienza a fare affari con loro, visto che le leggi non mancano. Se subisce un danno viene anche risarcito, prima non era così.
Nel libro il filo conduttore è rappresentato dal grande dispiacere e dalla profonda delusione provati da lei e da sua moglie nei confronti della Calabria e dei Calabresi, per avervi lasciati soli in questa dura battaglia…
Laggiù hanno tanta paura. Io non accetto che un rappresentante delle istituzioni, ad esempio un sindaco o un presidente di Provincia debba piegarsi dinnanzi la mafia. Se non ha il coraggio e la forza di fronteggiare il malaffare deve dimettersi immediatamente, o meglio ancora non deve entrare in politica. Il silenzio significa consenso, la paura, purtroppo, li ha fatti diventare come loro. Pensi che quando hanno ucciso il mammasantissima di Serra San Bruno, nei manifesti funebri c’era scritto: “Ti ricorderemo così, per la tua umiltà e per la tua saggezza”.
Qual è la cosa che più le è mancata dal giorno in cui ha dovuto abbandonare la sua vita diventando, di fatto, un fantasma senza terra?
La famiglia, gli affetti. Non hai più sentimenti, non sei più un essere umano. Nel 2008 ho fatto un viaggio, sono stato a Cracovia, con il treno della memoria, e ho visitato i campi di Auschwitza-Bikenau. Bene lo posso dire, ovviamente con il massimo rispetto per le atroci sofferenze delle tantissime vittime innocenti e con le giuste differenze, che la vita della mia famiglia per molti anni ha avuto delle assonanze con quella dei campi. Se fossi stato un uomo libero sarei tornato a fare l’imprenditore nella mia terra.
Oggi ci tornerebbe in Calabria?
No, anche perché i miei figli non si riconoscono più con quella terra. Ci tornerei solo per realizzare una piccola costruzione, di quattro metri per quattro. E poi dire: ecco, io sono tornato. Ora, però, per mia scelta e non perché sono costretto a fuggire, vado via perché non voglio più rimanere qui.
Chiudiamo questa nostra chiacchierata con uno stralcio della relazione della Direzione nazionale antimafia del 2011 che definisce così la ‘ndrangheta: “La più potente delle mafie italiane, fortemente collegata alla gestione del territorio, è ben radicata al nord Italia”. Lei che ne pensa?
È vero. Milano è la Reggio Calabria del nord. Loro se ne sono accorti adesso, ma è sempre stato così. Basta vedere quante costruzioni stanno facendo. A chi le vendono? Ma non c’è solo l’edilizia, quella serve per il riciclo dei soldi. Loro comprano tutto quello che c’è da comprare, vanno con tutti gli schieramenti politici. Il business economico ti consente di avere potere sul territorio. Il potere, quindi, è la prima fonte. Tutti i partiti politici, pertanto, devono essere uniti nella lotta alla mafia e alla corruzione. Le mafie non vogliono bene a nessuno. Credo che l’Italia sia un popolo che debba essere rieducato, bisogna sconfiggere quella cultura e quel modo di fare mafioso. Ecco, allora, che organizzando questo coraggio e partendo da una rivoluzione culturale, l’obiettivo di vincere diventa reale e concreto.
È questo il sogno nel cassetto di Pino Masciari?
Sì, perché è giusto che i nostri figli abbiano la possibilità di credere che ciò si avveri, che ci sia una speranza di vittoria. Altrimenti saremmo tutti dei morti viventi.