Pubblichiamo un bell\’articolo di Claudio Cordova, che parla della storia del fenomeno \’ndrangheta in maniera lucida e precisa.
E\’ anche la conoscenza che ci rende più attenti e quindi più forti e resistenti a questo finto \’stato nello Stato\’.
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Il punto di non ritorno ha come data il 10 ottobre del 1985, quando, a Villa San Giovanni, viene fatta esplodere un’autobomba dalla quale si salva, miracolosamente Nino Imerti. In risposta, tre giorni dopo, cade Paolo De Stefano all’interno del proprio regno, ad Archi, periferia nord di Reggio Calabria: sono solo i primi due eventi della seconda guerra di mafia reggina che lascerà sull’asfalto circa seicento morti. “A infuocare gli animi era stato il controllo dei futuri appalti relativi alla costruzione del ponte sullo Stretto, ma anche l’interesse dei De Stefano ad allargare la propria influenza su Villa San Giovanni, territorio degli Imerti” scrivono Nicola Gratteri e Antonio Nicaso nel best-seller “Fratelli di sangue”.
La pace dura dunque poco tempo. Appena alcuni anni prima si era conclusa la prima guerra di mafia, con cui le nuove cosche, tra cui proprio i De Stefano, avevano eliminato la ‘ndrangheta patriarcale di don ‘Ntoni Macrì e don Mico Tripodo. Il primo triennio del 1970 è decisivo nel riassetto delle gerarchie, anche perché agli inizi degli anni \’70 e, precisamente, dopo la rivolta di Reggio, cui partecipano anche elementi dei diversi gruppi mafiosi, sopraggiunge la stagione dei grandi appalti per la città e la sua provincia che sono letteralmente inondate da un fiume di finanziamenti pubblici per la realizzazione di alcune grandi opere come, ad esempio, la Liquichimica, il V° Centro Siderurgico ed il raddoppio della tratta ferrata Villa S. Giovanni – Reggio Calabria: il prologo al “ribaltone” avviene il 24 agosto del 1974, quando, in occasione del matrimonio di Girolamo Mazzaferro, presso il “Jolly Hotel” di Gioia Tauro, si tiene un incontro al quale partecipano tutte le ‘ndrine. Gli animi si scaldano e Paolo De Stefano offende don Mico Tripodo, peraltro assente (è latitante e teme un agguato delle cosche avversarie), provocando la reazione di don ‘Ntoni Macrì che mette le mani addosso a don Paolino; i due vengono divisi, ma ormai, forti dell’appoggio dei Piromalli, i De Stefano hanno sovvertito le gerarchie. Reggio e la sua provincia si dirigono, a grande velocità, verso la prima guerra di mafia.
Gli anni ’70 saranno fatali per molti.La sera del 4 novembre 1974, un gruppo di fuoco uccide all’interno del bar “Roof Garden”, in pieno centro a Reggio Calabria, Giovanni De Stefano e ferisce gravemente Paolo La Cava e Giorgio De Stefano. Paolo De Stefano, che si trova a Roma, fiuta il pericolo e non rientra neppure per i funerali del fratello, per il timore di essere a sua volta oggetto di attentati. La mattanza è ormai innescata. Per don ‘Ntoni Macrì, infatti, la campana suona a meno di un anno dalla lite con Paolo De Stefano a Gioia Tauro: il 20 gennaio del 1975 viene assassinato a Siderno, al termine di una partita a bocce, la sua passione. Tra i killer un giovane Pasquale Condello che ancora non è il “Supremo” e che, ai tempi del delitto, non ha ancora compiuto venticinque anni. Un anno e mezzo dopo toccherà al figlioccio di Macrì, Mico Tripodo, ucciso “da due miserabili” come dirà il pentito Giacomo Lauro, su ordine del boss della camorra Raffaele Cutolo, alleato di Paolo De Stefano. Quando, però, i De Stefano pensano di avere in pugno tutta la provincia avviene l’irreparabile: il 7 novembre del 1977 viene ucciso, in località “Acqua del Gallo”, nel comune di Santo Stefano d’Aspromonte, il boss Giorgio De Stefano che si trova lì in rappresentanza della propria famiglia. E’ stato invitato a partecipare a un summit mafioso, è accompagnato dal cugino Vincenzo Saraceno. Scopo ufficiale del summit è quello di raggiungere un accordo per limitare i sequestri di persona, gli omicidi, gli attentati dinamitardi, al fine di fare allentare sia la pressione esercitata dalle forze di polizia presenti in maniera massiccia nella provincia, sia quella dei più importanti organi di stampa nazionali che hanno assunto posizione contro il fenomeno mafioso.
Questo è lo scopo ufficiale.
In realtà si è scelto Santo Stefano d’Aspromonte, zona d’influenza dei boss Rocco Musolino e Francesco Serraino, solo per uccidere Giorgio De Stefano, sgradito alla quasi totalità delle cosche della provincia, con i Piromalli, alleati di un tempo, in testa.
All’incontro sono tutti disarmati: è una regola antichissima, impossibile da infrangere. L’unico a possedere un fucile è Giuseppe Suraci, cognato di Musolino, che è di vedetta. Giorgio De Stefano, nel proprio delirio di onnipotenza, non sospetta nulla: si siede su una roccia, sta per accendersi un sigaro. Non fa in tempo ad accenderlo, però, perchè viene colpito alle spalle proprio da Suraci. De Stefano muore sul colpo. Il cugino di Giorgio De Stefano, Vincenzo Saraceno, anch’egli ferito, riesce a porsi in salvo gettandosi in una scarpata. Dell’omicidio verrà incolpato e processato il solo Suraci. Non si procederà, invece, contro quelli che, anche alla luce delle dichiarazioni dei pentiti sarebbero stati i mandanti del delitto: Piromalli, Musolino, Serraino, Nirta. Il gesto di Suraci viene liquidato come un “fatto personale”: lo stesso Suraci non verrà più visto. Alcuni collaboratori di giustizia, tra i quali Filippo Barreca e Giacomo Lauro, racconteranno, in seguito, che la testa mozzata di Suraci verrà consegnata personalmente da Rocco Musolino a Paolo De Stefano, fratello di Giorgio, alla presenza di Pasquale Condello: un gesto macabro, volto a scagionare tutti i presenti da un’eventuale cospirazione contro il boss di Archi.
Da quel momento inizia l’ascesa di Paolo De Stefano, l’unico in vita dei tre fratelli che avevano sgominato la vecchia ‘ndrangheta. Il potere e il denaro, però, giocano un brutto scherzo a don Paolino. La sua politica accentratrice inizia a creare malcontento: tra gli “arcoti” c’è chi rimane fedele solo per paura. Lentamente, ma inesorabilmente, inizia a sgretolarsi quella situazione di apparente equilibrio e stabilità, dovuta alla sostanziale alleanza (o almeno non belligeranza) tra i principali esponenti del crimine organizzato: i De Stefano, Tegano, Condello, Saraceno di Archi, i fratelli Domenico e Pasquale Libri, Francesco Serraino, e nel villese, Antonino Imerti e gli Zito di Fiumara di Muro. A mettere in crisi, ulteriormente, i rapporti di forza è il matrimonio, avvenuto nel febbraio del 1985 tra Antonino Imerti, egemone nella zona di Villa San Giovanni, e Giuseppina Condello, cugina di Pasquale Condello, braccio armato del clan. Quel matrimonio segnerà uno spartiacque fondamentale verso la seconda guerra di mafia. Don Paolino, dunque, si sente accerchiato: i sui vaneggiamenti sono testimoniati dal pentito Giacomo Lauro che il 21 giugno del 1994 racconterà l’episodio nel quale De Stefano gli disse di sentirsi “il braccio armato della Madonna di Polsi la quale si serviva di lui per uccidere ed eliminare tutti gli infami ed i tragediatori della ‘ndrangheta”.
L’evento dirompente si registra dunque il 10 ottobre del 1985 a Villa San Giovanni, allorquando una autovettura Fiat 500 imbottita di esplosivo e posteggiata accanto all’autovettura blindata di Antonino Imerti, detto “nano feroce”, viene fatta esplodere con un comando a distanza provocando la morte di tre persone – Umberto Spinelli, Vincenzo e Angelo Palermo – guardie del corpo di Imerti e il ferimento dell’autista Natale Buda, autista. Il boss, invece, ne uscirà totalmente illeso. Gli inquirenti, che accorrono sul posto, si trovano di fronte uno scenario apocalittico: l’esplosione di un’autobomba, che avrebbe potuto colpire i cittadini in maniera indiscriminata, non è un metodo abituale per la ‘ndrangheta. Si tratta, dunque, di un episodio gravissimo che il cartello Imerti-Condello riconduce immediatamente alla famiglia De Stefano.
A questo punto, però, don Paolino De Stefano gioca una carta a sorpresa. Il boss invia un messaggio, una cosiddetta “imbasciata”, alle altre famiglie, chiede un incontro chiarificatore smarcandosi da ogni responsabilità, accollando le colpe dell’attentato al capolocale di Catona, Giovanni Rogolino. La risposta arriva immediatamente: non ci sarebbe stato alcun incontro se prima i Fontana e gli altri non avessero fatto un colloquio con Pasquale Condello e la prima data utile sarebbe stata quella di lunedì 14 ottobre. Per questo il 13 ottobre, domenica, Paolo De Stefano passa tranquillamente, in moto, davanti all’abitazione dei Condello, in via Mercatello, ad Archi. Sono le 16, a precederlo, pochi metri prima, facendo da vedetta, è il figlio, a quei tempi giovanissimo, Giuseppe: nei decenni successivi diventerà uno dei capi più carismatici e crudeli della ‘ndrangheta cittadina. E’ solo un eccesso di zelo, però, perché Paolo De Stefano è sicuro, è tranquillo non solo in virtù di una sorta di “tregua armata”, come racconterà, peraltro, il pentito Giacomo Lauro, che non sarebbe stata sicuramente rotta prima del colloquio con Pasquale Condello ma anche perché ha avuto assicurazioni da Nino Mammoliti circa la fedeltà dei Fontana.
Saranno invece proprio i Fontana a vendere il boss di Archi.
In quel 13 ottobre del 1985, dunque, a soli tre giorni di distanza dall’autobomba in danno di Nino Imerti, nel rione Archi di Reggio Calabria e cioè nel cuore del suo regno incontrastato, viene ucciso il boss Paolo De Stefano insieme al quale cade il suo fido picciotto Antonino Pellicanò. I due (entrambi latitanti dato che Pellicanò era colpito da un ordine di cattura per omicidio) viaggiano a bordo di una moto Honda intestata a Bruno Saraceno, classe 1953, noto agli organi di polizia come bene inserito nel clan De Stefano e più volte segnalato quale autista di Orazio De Stefano nel periodo della latitanza del boss, fratello di don Paolino. A un tratto vengono investiti da una tempesta di fuoco causata, tra gli altri, da Domenico Condello, “Micu u pacciu”, l’ultimo dei capi attualmente latitanti.
L’attentato ai danni di Imerti viene attribuito dunque alla responsabilità diretta del vertice dell’organizzazione mafiosa di Archi. Il tentativo di scatenare una “tragedia” messo in atto da Paolo De Stefano non va a buon fine: contrariamente al solito, il boss non riesce a valutare bene i propri avversari. La reazione, dunque, deve essere adeguata e proporzionata. L’uccisione di Paolo De Stefano, allora, rappresenta l’unica risposta a disposizione del “nano feroce” e degli “scissionisti”. I due eventi, verificatisi a distanza di pochissimi giorni, segnano infatti la clamorosa rottura dell’unità del clan De Stefano con la secessione delle famiglie Condello e Fontana di Archi e loro aggregazione a quella di Imerti, originario di Fiumara di Muro, ma che ormai da tempo ha trasferito il suo centro di affari illeciti nel più prosperoso centro di Villa San Giovanni. Sul finire del 1985, dunque, si registra un periodo di relativa stasi durante il quale i De Stefano, forti dell’appoggio dei Tegano, preparano il proprio esercito, puntando anche sull’alleanza con il potente clan di Mico Libri. Dall’altra parte si trovano gli Imerti, i Condello e i Fontana.
Passano alcuni mesi e la reazione dei De Stefano è veemente, con gli omicidi di Francesco Condello e Paolo Jannone, eseguiti il 13 gennaio del 1986 a distanza di mezz’ora l’uno dall’altro. Reggio Calabria si appresta a vivere oltre cinque anni di sparatorie e morti ammazzati per le strade: uno scenario da Chicago degli anni ’30.
Del resto, solo uno sciocco avrebbe potuto pensare che l’autobomba a Nino Imerti e l’omicidio di Paolo De Stefano rimanessero due episodi isolati.
Fonte: Claudio Cordova per Strilli.it