«In occasione del sesto anniversario dell’assassinio di mio marito, vogliamo lanciare un messaggio di speranza per il nostro Paese e indicare una via da seguire in questo momento di estrema difficoltà: la legalità sia il collante dell’Unità nazionale». A sostenerlo è Maria Grazia Laganà Fortugno, vedova del vicepresidente del consiglio regionale calabrese, ucciso il 16 ottobre 2005 a Locri. «L’Italia, che quest’anno celebra il 150° anniversario della sua unificazione, è oggi paralizzata dalla crisi politica, provata dall’instabilità dei mercati finanziari e, soprattutto, attraversata da mille tensioni e pericolose spinte secessioniste. Abbiamo così pensato – spiega la deputata calabrese – di commemorare Franco non solo per omaggiare la sua figura trasparente, ma anche per sottolineare l’esigenza di una maggiore coesione nazionale, raccogliendo la sollecitazione che, in questa direzione, il presidente Napolitano ha sempre rivolto agli Italiani nel corso di quest’anno».
«Legalità e giustizia, quella giustizia che io chiedo venga fatta sino in fondo, fino all’ultimo livello dei mandanti dell’omicidio di Franco, sono i principi che devono ispirare e orientare i comportamenti nella realtà socio-politica, soprattutto in Calabria», afferma ancora l’on. Laganà Fortugno.
Le iniziative in programma domenica 16 ottobre a Locri cominceranno alle 9.45 con la deposizione di una corona di fiori a Palazzo Nieddu da parte del vicepresidente del Senato, Vannino Chiti. Alle 10.30, poi, alla Casa della cultura della città, si terrà una tavola rotonda intitolata “Francesco Fortugno, cittadino d’Italia”, che sarà moderata dalla giornalista Rai Tiziana Ferrario. Vi prenderanno parte, oltre al senatore Chiti, il sottosegretario alla Difesa Guido Crosetto, il consigliere del Csm Guido Calvi e il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso. Hanno inoltre assicurato la loro presenza, tra gli altri, il capo di Stato maggiore della Difesa, generale Biagio Abrate, e quello dell’Esercito, generale Giuseppe Valotto. Il dibattito sarà intervallato dalla lettura di alcuni testi da parte dell’attrice Serena Autieri. Infine, alle 15.45, la Messa di commemorazione dell’on. Fortugno che sarà celebrata nella Cattedrale di Locri dal vescovo, monsignor Giuseppe Fiorini Morosini. (fonte Strill.it)
Riportiamo di seguito l\’articolo di Roberto Galullo tratto dal sito \”Guardie o Ladri\” de Il Sole 24 Ore:
Sei anni fa – il 16 ottobre 2005 – fu assassinato in un seggio di Locri Francesco Fortugno, vicepresidente del consiglio regionale calabrese. Ormai è storia. Così come storia recente è il fatto che, anche in appello, siano stati condannati all’ergastolo Alessandro Marcianò e suo figlio Giuseppe come mandanti e Salvatore Ritorto e Domenico Audino come esecutori materiali.
Storia è anche il fatto che la Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria abbia da qualche mese aperto un nuovo spiraglio di indagini a seguito di un’informativa della Squadra mobile di Reggio Calabria che tira in ballo un fatto specifico. Nel 2005 gli investigatori intercettano a Prato, in via Guasti 55, dove sconta i domiciliari, Mico Libri, capo indiscusso dell’omonima cosca. Il 13 ottobre – cioè tre giorni prima dell’omicidio – due fedelissimi di Don Mico parlano con il fratello di quest’ultimo, Pasquale. E vengono intercettati. Cosa dicono i due a Pasquale? Che il 16 ottobre alle 10 si incontreranno con esponenti delle ‘ndrine federate De Stefano-Tegano. Certamente un incontro al vertice: De Stefano-Libri, come a dire chi comanda in provincia di Reggio e chi custodisce le tavole delle leggi di mafia calabrese. Uno di quegli eventi che non avvengono per parlare di calcio ma di morti o di affari. Che poi in Calabria sono spesso la stessa cosa.
Il 13 ottobre alle 21.52.48 due fedelissimi (Salvatore Tuscano e Antonino Sinicropi) dicono testualmente a Don Mico: “…da lunedì in poi ridiamo…”. Lunedì 17 ottobre, dunque, il giorno dopo l’omicidio.
“Lo stupore di Don Mico – annota la Squadra mobile di Reggio Calabria – affiorava al punto che, all’oscuro di quanto sarebbe avvenuto dopo qualche giorno, chiedeva spiegazioni…La risposta evidenziava come in un luogo non meglio indicato, verosimilmente riferendosi al comprensorio della Locride, ci si comportasse al di fuori delle regole di ‘ndrangheta…”.
La squadra mobile – che a dicembre 2005 spedisce l’informativa all’allora sostituto procuratore Roberta Nunnari, ora a Milano – è sicura: “appare fondatamente ipotizzabile – scrive il dirigente Arena – che i colloquianti stessero discutendo, seppur implicitamente, dell’imminente omicidio del vicepresidente del consiglio regionale della Calabria Fortugno Francesco e delle conseguenze che avrebbe determinato anche in seno agli assetti e agli equilibri delle ‘ndrine operanti nella provincia”.
Di questo ho abbondantemente parlato in due post esclusivi (l’informativa fu mandata anonimamente a me e al collega Enrico Fierro del Fatto Quotidiano) che troverete in archivio il 14 e 15 maggio 2011 e dunque lì rimando per i dettagli. Sulla base di questa informativa la Commissione parlamentare antimafia ha deciso di interessarsi di quell’omicidio eccellente.
LA COMMISSIONE ANTIMAFIA
La Commissione parlamentare antimafia ha deciso di andare a fondo sull’omicidio di Francesco Fortugno, dopo che quell’informativa è poi sparita dai radar. “Non si capisce perché questo importantissimo documento – mi ha spiegato, nel pezzo che ho scritto oggi sul Sole-24 Ore Luigi Li Gotti che con l’ex superprefetto di Reggio Calabria e ora vicino di banco in Commissione parlamentare antimafia Luigi De Sena sta seguendo il caso – non sia stato acquisito agli atti del processo Fortugno ma compaia invece quasi clandestinamente in un altro processo per ‘ndrangheta”.
Il presidente della Commissione, Beppe Pisanu, prima dell’estate, ha chiesto alla Procura di Reggio Calabria di avere un rapporto su quell’informativa e una nuova perizia su quella intercettazione. Nonostante il recente sollecito ancora nessuna risposta da Reggio ma, informalmente, la Commissione antimafia ha saputo che la Procura riterrebbe quell’informativa di scarso rilievo. La circostanza è confermata tanto da Li Gotti quanto da De Sena ed è quest’ultimo ad alzare il muro. “Le voci di corridoio non servono a nulla – mi ha dichiara ieri De Sena sempre nel pezzo che ho scritto per il Sole-24 Ore – vogliamo una risposta scritta e comunque nel prossimo ufficio di presidenza chiederemo l’audizione dell’ex capo della Squadra mobile Arena ed eventualmente dei magistrati che hanno seguito le indagini”.
Alla Commissione parlamentare sta a cuore che l’informativa non venga messa all’angolo per un semplice motivo: l’omicidio di Fortugno non può essere stato privo di mandanti eccellenti. Un terzo livello al quale fa esplicitamente riferimento Li Gotti: “Non esiste che quattro gatti senza padrone progettino un omicidio di questo calibro per le ricadute che ha avuto per gli equilibri politici, interni alle cosche, nei confronti delle Forze dell’ordine, della magistratura e dell’opinione pubblica”. De Sena, compagno di strada incalza: “Sui livelli superiori l’indagine non si è conclusa ed è auspicabile che vada avanti”.
Proprio per questo la Commissione antimafia – informativa o meno – ha deciso di riaccendere i riflettori su quel delitto che le due sentenze riconducono a “Marcianò Alessandro e al di lui figlio Giuseppe per recuperare il credito che costoro avevano perso nell’ambito dell’entourage di Crea Domenico e/o per assicurarsi quei vantaggi economici, tanto attesi, che non avrebbero più ottenuto una volta che il Crea non era stato eletto”.
Nei giorni scorsi ho letto e riletto le 404 pagine delle motivazioni con le quali la Corte d’assise d’appello di Reggio Calabria ha sostanzialmente riconfermato sul delitto Fortugno ciò che i giudici di primo grado avevano stabilito.
Una lettura ancora più interessante alla luce della decisione della Commissione parlamentare antimafia che ha deciso di vederci chiaro in questo omicidio richiedendo alla Procura di Reggio Calabria notizie di un’informativa della Questura del dicembre 2005 e di un’intercettazione in cui si farebbe riferimento all’interessamento nell’omicidio da parte delle cosche Libri e De Stefano (ma per questo rimando al post di ieri e a quelli del 14 e 15 maggio 2011 in archivio).
Le motivazioni dell’omicidio escono confermate in secondo grado. “I giudici della Corte d’Assise di Locri hanno dedicato buona parte dell’impugnata sentenza – si legge infatti a pagina 332 delle motivazioni – alla individuazione della causale politica, mafiosa o privata dell’omicidio Fortugno. Sono pervenuti così ad escludere piste alternative giungendo all’affermazione che il delitto in esame è stato ideato e voluto da Marcianò Alessandro e dal di lui figlio Giuseppe per recuperare il credito che costoro avevano perso nell’ambito dell’entourage di Crea Domenico e/o per assicurarsi quei vantaggi economici, tanto attesi, che non avrebbero più ottenuto una volta che il Crea non era stato eletto”.
Quello che colpisce (e ha sorpreso anche la Commissione parlamentare antimafia che finalmente ha deciso di aprire gli occhi) è che questo delitto sia senza padr(ini) eccellenti. I giudici di secondo grado, richiamando la sentenza di primo, ricordano che il contesto in cui è maturato l’omicidio è sicuramente riferibile all’ambiente criminale della famiglia Cordì, per i rapporti stretti e intensi con le persone poi condannate all’ergastolo mai interrotti ma, come hanno scritto i giudici di primo grado, il dibattimento “non ha fornito la prova che l’omicidio sia riferibile espressamente ai componenti della originaria e più accreditata cosca Cordì, tantomeno la prova che costoro abbiano prestato un contributo nella forma mediata dell’autorizzazione o, anche, abbiano conferito un mandato ad uccidere al Novella ed al suo gruppo”.
La sentenza di secondo grado però i dubbi se li pone, tanto che subito dopo questo passaggio, a pagina 44, il giudice estensore Lilia Gaeta scrive: “Tale fatto potrebbe apparire in contrasto con dati di carattere sociologico e con la stessa costruzione del fenomeno ‘ndranghetistico come realtà direttamente legata al territorio sul quale è dotata di un controllo, almeno sotto il profilo del compimento di attività illecite di certa rilevanza”.
La famiglia Cordì però – tra arresti e decimazioni di mafia – vive un fenomeno di appannamento e pur mantenendo le proprie radici ancorate sul territorio, le sue propaggini sono “rappresentate anche dal gruppo Novella con funzioni strumentali rispetto a quelle dell’aggregato principale cui sempre debbono ritenersi collegati, ma al contempo con capacità organizzative autonome. In tale ambito trova concreta realizzazione la commissione del grave gesto delittuoso. Le altre risultanze, da un lato, non offrono elementi probatori riferibili ad una determinazione o a un consenso alla commissione dell’omicidio da parte dei maggiorenti della famiglia Cordì, dall’altro, consentono di disegnare i contorni precisi dell’interesse che ha mosso Marcianò Alessandro ed il figlio Giuseppe spingendoli ad organizzare ed attuare il progetto delittuoso con le modalità e nei termini riferiti dal collaboratore e partecipe all’omicidio Novella Domenico”.
L’altra cosca sul territorio – Cataldo, in lotta con i Cordì per il predominio – non entra mai minimamente in gioco in questa indagine.
VUOTO DI POTERE
I giudici di secondo grado sono assolutamente certi che l’omicidio sia nato e sia limitato (ricordiamo che questo è stato un processo indiziario) a questo ambito.
Dalle intercettazioni acquisite – in particolare, dalla conversazione svolta il 18 marzo 2010, alle ore 17.10 tra Giuseppe Commisso e Ilario Aversa all’interno della lavanderia Apegreen – emerge chiaramente che, dopo una trentennale guerra di mafia tra le opposte famiglie Cordì e Cataldo era stata finalmente siglata la pace tra le citate ‘ndrine locali ed era stata riattivata la “locale” di Locri precedentemente “messa in sonno”.
In pratica, da questa conversazione i giudici traggono la conferma che all’epoca dell’omicidio Fortugno e sino agli inizi del 2010 non esisteva a Locri una “locale” a cui fare riferimento.
Oogni gruppo criminale (tra cui anche quello di Novella) era libero di prendere qualsiasi iniziativa (logicamente di tipo criminale) senza chiedere il permesso o la preventiva autorizzazione ad alcun organismo locale a questo fine predisposto.
Solo di recente, sotto la supervisione e la partecipazione di Giuseppe Commisso (nella sua veste di vertice della “Provincia”), risulta ricostituita la locale locrese e si ha conferma, scrivono i giudici di secondo grado, della nuova stipula di precisi accordi spartitori sulla gestione dei futuri appalti che sarebbero stati assegnati nella zona di Locri (“Va bene, ma Locri è unito..Locri è tutto unito, voglio dire Locri..se loro si sono accordati”- “Sì, hanno detto che faranno cinquanta e cinquanta”).
Questa circostanza contraddice le conclusioni a cui sono pervenuti i giudici di primo grado (limitatamente all’asserita esistenza di un necessario collegamento tra il gruppo Novella e la cosca Cordì) ma rappresenta secondo la Corte d’appello di Reggio Calabria “un’indubbia conferma di quanto ammesso in proposito da Novella, da Piccolo e dallo stesso Ritorto”.
In questo senso depone anche il comportamento tenuto in carcere da Vincenzo Cordì che, pur non conoscendo i giovani di Locri che erano stati arrestati nel corso dell’operazione Arcobaleno 2, si premura subito di assumere informazioni sulla loro identità e sull’esistenza di eventuali collegamenti parentali con la sua famiglia.
Se il gruppo Novella fosse stato effettivamente una costola o una derivazione di una cosca ben più importante, Vincenzo Cordì, scrivono i giudici di secondo grado, “avrebbe dovuto non solo conoscere detti giovani, ma anche essere a conoscenza della loro partecipazione ad un clan di cui egli era considerato (pur rimanendo ristretto in carcere) il capo incontrastato”
Sul punto, pertanto, la Corte d’assise d’appello si discosta dalle conclusioni a cui sono pervenuti i primi giudici: il gruppo Novella va considerato un gruppo assolutamente autonomo e distinto dal clan Cordì “con il quale non esisteva alcun collegamento diretto o di subordinazione, ma, al massimo, di semplice vicinanza in ragione dei meri rapporti familiari o di conoscenza che legavano alcuni di essi alla famiglia dei Cordì e ciò in perfetta coincidenza ed armonia con quanto dichiarato da Novella nel corso dell’incidente probatorio. In tale occasione, infatti, il collaboratore ha sostenuto di conoscere Cordì Vincenzo da quando era piccolo “ma non per frequentazione”; ha ammesso, altresì, di camminare armato (così come altri suoi consociati) solo perché, essendo in corso una guerra tra i Cordì e i Cataldo, anche loro dovevano considerarsi “pure in questo gruppo dei Cordì, ma non tanto per rapporti di frequentazione quanto per rapporti di parentela”.
Insomma un omicidio calato in un vuoto di potere (non c’era all’epoca un locale di ‘ndrangheta secondo la ricostruzione dei giudici di secondo grado). Ma proprio per questo, ritengo, impossibile da decidere per personaggi di secondo piano quali quelli caduti nella rete della Giustizia. Come sto scrivendo da anni siamo ancora lontani dalla verità. Molto lontani.