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Fonte: Strilli.it

Pensate ad un quadro di Van Gogh: giardini sterminati, alberi, una vastissima zona verde. Agli inizi degli Anni Settanta era questo lo scenario visivo di Saline Joniche:

quattro casupole, solo ed esclusivamente giardini di bergamotto. Difficile crederlo oggi, dato che la giganteggiante zona dove sorge l’ex Liquichimica è, tutt’ora, un’immensa colata di cemento con quella torre maledetta alta 174 metri, simbolo di un passato nefasto, che svetta in cielo prepotente come a dire: ‘Resisto e mi vedrete per sempre da lontano. Sono l’emblema dei vostri scempi’. E in effetti, quella torre-monito resterà lì per sempre. Nessuno può toglierla. Troppo rischioso.

La storia della Liquichimica, quindi della ‘nostra’ torre, che ci accompagna da circa quarant’anni ormai, nasce da quel movimento di protesta popolare, strumentalizzato all’epoca dalla destra estrema°, che va sotto il nome di Rivolta di Reggio. Siamo nel 1970. Nel momento in cui, finalmente, i governi Dc decidono di mettere in atto uno degli strumenti fondamentali della nostra Costituzione, cioè le Regioni, mai entrate in funzione dal 1948, Reggio diventa teatro, dal 14 luglio 1970 fino all’inizio dell’anno seguente, di una sommossa dal basso che non aveva mai avuto precedenti nella storia della Repubblica italiana. Obiettivo: avere Reggio capoluogo di Regione, non la prescelta Catanzaro. Alla fine però, la protesta non ottiene quello che per cui combatteva. Per ovviare a questa situazione, il Governo presieduto da Emilio Colombo ingegna il famoso ‘Pacchetto’: miliardi di lire che piovono in Calabria per la realizzazione di grandi opere industriali. Tra queste, la costruzione del polo industriale più grande del Paese: la Liquichimica di Saline.

E’ un vero e proprio risarcimento da parte di uno Stato assistenziale per quello che, prima, non è stato dato a Reggio Calabria. Pino Aprile ha detto: “La Liquichimica è la metafora di come lo Stato opera al Sud”.

1972: via i giardini di bergamotto, viene letteralmente sventrato un pezzo di costa lungo due chilometri. I soldi investiti dal pacchetto Colombo per la Liquichimica sono 300 miliardi. Cifre pazzesche: un’area di settecentomila metri quadri, estesa per due km lungo la costa, addetta alla produzione di mangimi animali derivati dal petrolio.

Impossibile che la ‘ndrangheta non ci mettesse le mani addosso. Infatti lo fece.

A coordinare i primi lavori Francesco Finocchiaro, Cavaliere del Lavoro originario di Catania, a cui subentra, poco dopo, la famiglia Costanzo, catanese anche quella. I Costanzo si aggiudicano gli appalti per la Liquichimica. Poi subappaltano al capobastone della zona: Natale Iamonte, boss di Melito, che da macellaio diventa, così, ‘businessman’.

Ma un particolare scotta: il terreno, espropriato alla baronessa originaria di Napoli Maria Piromallo di Prisco, è franoso°°. Purtroppo però, la perizia geologica che lo attesta sparisce dal carteggio. Anche il Direttore del Genio Civile di Reggio Calabria, il quale continua a dire che il terreno non è adatto, sparisce: dal mondo dei vivi. Muore in un incidente stradale dai contorni ambigui.

Natale Iamonte, riferiscono il Pm Nicola Gratteri e lo scrittore Antonio Nicaso nel libro ‘Fratelli di Sangue’, divide gli appalti tra le cosche della zona: “Molte delle imprese che si aggiudicarono i sub-appalti per la realizzazione dello stabilimento di Saline” – dicono – “erano intestate a società anonime del Liechtenstein, dietro alle quali si celavano imprenditori reggini, indicati come vicini alle famiglie De Stefano e Libri”. C’è una fetta di torta per tutti, anche per la mafia: “La polizia canadese intercettò a Montreal alcuni boss della mafia siciliana che discutevano su come contattare Natale Iamonte per essere parte dell’affare Liquichimica”.

Nel 1974 lo stabilimento è completato. Un’opera immensa: vasche, silos per l’acido citrico, mense, un porto privato. E la torre maledetta. Vengono assunti circa 750 lavoratori.

Soltanto pochi mesi dopo, la beffa: il Ministero della Sanità certifica che i mangimi, ‘bistecche al petrolio’ di normalparaffina, sono cancerogeni. Si blocca tutto: 750 dipendenti sono costretti alla mobilità ed alla cassa integrazione. Nel 1977 si ha il definitivo fallimento.

Intanto, grazie al blocco dei lavori, Natale Iamonte utilizza il porto di Saline per far sbarcare carichi di eroina provenienti dal Libano per conto di Domenico Tegano e di Paolo De Stefano.°°°

I lavori della Liquichimica si concludono ancor prima di iniziare. Nessun lavoratore verrà più richiamato: trent’anni di cassa integrazione, la morte sociale. La gente va in pensione senza aver mai lavorato, alcuni magari contenti, ma altri, troppi, frustrati e lasciati soli con la consapevolezza sia di aver sprecato la propria vita senza aver contribuito minimamente al progresso del territorio e della società, sia coscienti di essere stati, per il Paese, soltanto un peso a cui badare. Alternative non ne avevano: tenersi la cassa integrazione era per loro obbligatorio, dato che la Provincia di Reggio, già allora, possedeva un vocabolario privo della parola ‘opportunità’.

Si stima che lo Stato italiano abbia speso circa due miliardi di lire per gli stipendi dei non-lavoratori della Liquichimica.

Gente che, ignara delle trame che avevano portato alla costruzione dell’impianto, pensava di poter sollevare qualitativamente il territorio di Saline proprio tramite la Liquichimica. Tramite il loro lavoro. Ci credevano.

Dopo la chiusura dell’impianto, si è continuato a fare manutenzione in quanto l’investimento era stato troppo grande per poter essere abbandonato definitivamente. Trent’anni di manutenzione per dare da mangiare, da vestire ed un tetto ad un cadavere, quando, invece, qualsiasi governo, in quarant’anni, avrebbe potuto riconvertire la struttura. Bastava impegnarsi. Niente.

Nel 1999 la Enichem, a cui era stato venduto l’impianto, lo vende a sua volta a cifre irrisorie al consorzio Sipi (Saline Ioniche Progetto Integrato). Quest’ultimo non riesce a reggere i costi della struttura, smantella e vende ogni materiale vendibile, soprattutto acciaio, per sanare i debiti. Nel 2006 ‘Progetto Sei’, cartello di aziende con a capo la multinazionale svizzera Repower, acquisisce il gigante di latta con l’obiettivo di costruire un’ipotetica centrale a carbone.

Un territorio sventrato e lasciato, da solo, a marcire. Di fronte all’ex Liquichimica, infatti, un’altra “cattedrale insabbiata”: le Officine Grandi Riparazioni.

Ma questa è un’altra storia… sempre eguale.

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