di Dario Motta III C Liceo Classico di Gioia del Colle
Riprende in Tibet la ribellione contro la colonizzazione dell’etnia “han”. Per la prima volto dopo cinquantatré anni la rivolta non ha come epicentro la città santa di Lasa. Ad insorgere sono gli abitanti di città, villaggi, conventi e accampamenti nomadi distanti tra loro centinaia di chilometri. Quanto accade oggi lontano dai nostri occhi è stato innescato nel marzo 2010 dall’auto-immolazione di Phuntsog, un giovane monaco del monastero di Kirti nella regione del Sichuan. Dopo l’episodio, le forze di sicurezza cinesi hanno tenuto in detenzione i circa trecento monaci di Kirti per un mese (condannandone tre a 10-13 anni di reclusione per aver “assistito” il compagno nell’immolazione). Come se fosse stato lanciato il segnale collettivo di ripresa della guerra, nove monaci tibetani si sono dati fuoco per protestare contro l’occupazione cinese del Tibet e per il ritorno del Dalai Lama. Il 17 ottobre anche una donna, la prima dall’inizio delle proteste, si è cosparsa di carburante e si è immolata vicino al suo monastero, il Mamae Dechen Choekhorling Nunnery, vicino a Ngaba, nella regione del Sichuan. In una zona del Sichuan tibetano, la polizia cinese ha aperto il fuoco e ferito due monaci durante una manifestazione di protesta nella prefettura di Garze. Ancora oggi non si sa come stiano e dove si trovino i due contestatori feriti. Tenzin Wangmo, vent’anni, con il corpo in fiamme, ha camminato sulla strada per otto minuti cantando e gridando slogan a favore dell’indipendenza del Tibet: 89 vittime ufficiali in poco più di due anni e mezzo. Non ci sono cronisti che possano verificare questi dati e testimoniare gli eventi dai luoghi in cui sono avvenuti. Il bollettino, non ancora contestato dalle autorità cinesi, viene diffuso dalle associazioni degli esuli tibetani e da Radio Free Tibet, di base negli USA. I “bonzi” tibetani non hanno nulla a che vedere con i kamikaze dell’islam. Essi non usano alcun tipo di violenza verso persone o cose. La loro è una forma di protesta estrema nel disperato tentativo che qualcuno possa dare ascolto alla voce del loro popolo, nella speranza di infiammare l’opinione pubblica dell’Asia e, magari, dell’Occidente. Togliersi la vita è, anche per un buddista, un atto che offende gli dei. Un atto così grave comporta, per i buddisti, la rinunzia alla reincarnazione: il suicidio di massa mette in particolare risalto il livello di disperazione dei tibetani e il loro senso di abbandono da parte della comunità internazionale. Onde evitare che il mondo continui ad accorgersi della tragedia tibetana, Pechino ha varato una serie di punizioni contro le famiglie e i villaggi di chi si auto-immola, vietato ai tibetani di partecipare alle cerimonie funerarie dei “bonzi”, svuotato i monasteri buddisti e arruolato migliaia di agenti con l’obbiettivo di impedire alla gente di darsi la morte. Gli abitanti delle regioni del Tibet storico sono oggi controllati incessantemente dall’esercito e da una rete di telecamere che li filmano anche tra le statue dei Buddha e nell’intimità. Pompieri sotto le spoglie di monaci tibetani vengono infiltrati nei conventi per impedire che il fuoco della protesta distrugga tesori dell’arte e della storia. Si uniscono alle auto-immolazioni una serie articolata di rivolte, tra cui, dal Qinghai al Gansu, quelle di migliaia di ragazzi che protestano contro le lezioni di “patriottismo rosso”, o contro l’abolizione della lingua tibetana nelle scuole. Tutte queste forme di protesta rappresentano la disperazione di un popolo esausto. Bisogna asolutamente dare ascolto a queste voci che chiedono disperatamente aiuto.