Il processo \”Aemilia\” va\’ avanti e vengono ricostruite le fitte maglie gerarchiche dei clan della \’ndrangheta presenti in Emilia. Tra le varie conversazioni il boss Nicolino Grande Aracri si è definito un \”povero contadino, mica un boss\”.. Spavalderia, specchio del potere della \’ndrangheta che tutto è tranne che debellata, in Emilia ed in qualunque altro luogo.
Processi Ndrangheta, Grande Aracri: «Macchè boss, sono solo un contadino»
All’udienza Pesci arriva, in videoconferenza dal carcere, la decisa replica di Nicolino: «Non c’è una prova»
I perentori interventi da capo indiscusso di Nicolino Grande Aracri: prima a Bologna (nell’udienza preliminare dove alla fine è stato condannato a 6 anni e 8 mesi di reclusione ) e ora al processo Pesci in corso a Brescia.
«Io non c\’entro nulla con questo processo. Questi personaggi di cui parlate con me non c\’entrano niente. La Procura – rimarca deciso – mi tira in ballo lo sapete perché? Perché gli servo per dare a questi personaggi l\’aggravante mafiosa». Grande Aracri non rinuncia a prendere la parola in videoconferenza dal carcere milanese di Opera, dove è rinchiuso in regime di carcere duro.
Vuole ribadire il suo ruolo di boss \”ufficialmente dal Duemila\”, e un nome che gli omuncoli usano a vanvera per farsi belli.
L\’ispettore della squadra mobile di Genova Roberto Dallara parla dell\’inchiesta Cane Rosso, e il boss vuole chiarire la sua estraneità, confermata da un\’assoluzione. Prima del 2000, racconta con dovizia di particolari, onesto e stimato allevatore, commerciante, con un patrimonio di un miliardo di vecchie lire, guadagnato \”in modo legale\” con il commercio e la vendita di generi alimentari. Tutto documentato, annuncia insieme alla promessa di succulente dichiarazioni.
A confermarlo, afferma, ci sono anche i soldi dell\’Aima che il ministero gli ha versato appunto fino al 2000, «quando sono diventato il boss di Cutro e ho dovuto vendere le pecore. In casa erano tutte femmine, secondo voi potevo lasciare a loro pecore e mucche?».
Si vanta di essere stato uno dei pochi in Italia a non essere mai stato denunciato per truffa all\’Aima. Un onesto contadino, che telefonava a Francesco Lamanna, considerato dalla Procura il suo braccio armato nei cantieri del Cremonese, perché «è mio cugino e abitava nella casa a fianco alla mia a Cutro». In Germania, ricorda, la polizia tedesca lo controllava di continuo, «e non hanno mai trovato nulla: né droga né altre attività illecite». Poi l\’ascesa criminale, parallela «al calvario delle lungaggini dei processi che ho dovuto sopportare». Anche se, precisa, contro di lui c\’è stato un accanimento, «mi intercettavano, io parlavo di farina e loro dicevano che intendevo cocaina. Ma non è mai stato dimostrato nulla». Il boss ci tiene a precisare che con la droga lui non c\’entra. «Sono anni che devo chiarire a ogni processo sempre le stesse cose. Mi tirano sempre in ballo, io \’sti napoletani che sono stati condannati nell\’indagine Cane Rosso non li conosco proprio». E questo processo, il boss è pronto a scommettere, per lui «finirà in un niente».