Condannati a più di 15 anni di carcere nel processo di primo grado ed in appello ma poi prima della decisione della cassazione, che avrebbe confermato le precedenti sentenze, un giudice, Stefania Di Rienzo, non deposita le motivazioni della sentenza e i mafiosi (tra i quali Teresa Gallo, che era stata condannata a 17 anni e 5 mesi di carcere) tornano in libertà per scadenza dei termini di custodia cautelare (altri 10 ne erano usciti nei giorni passati sempre per lo stesso motivo). Assurdo quanto pericoloso, una beffa per la giustizia ed uno schiaffo alla società onesta. La caratura degli imputati era tale che la polizia giudiziaria (intimorita) si rifiutò di \”trasportare\” gli imputati in aula giudiziaria ed il Ministero fù costretto a far scendere in campo i reparti speciali. chi pagherà per questa lacerazione giudiziale? Ovviamente nessuno! Quando siamo noi a sbagliare, la mannaia della giustizia si accanisce su di noi e spesso in modo ingiusto, mentre quando è la stessa giustizia, o chi la rappresenta, a sbagliare allora tutto accade come se fosse la normalità! La domanda sul dubbio che ci poniamo però è ancor più grave, le motivazioni non sono state depositate nei tempi richiesti per effettiva disattenzione (gravissimo) o per \”pressioni\” subite dal giudice??? Passateci il dubbio pensiero perchè siamo abituati a tutto ormai in questo paese dove la legge stessa a volte diventa illeggittima!!!
Giudice ritarda sentenza, ‘ndranghetisti tornano liberi
Gli esponenti della ‘ndrangheta vengono condannati in primo grado e in appello in Calabria, ma il giudice non deposita la sentenza. Un ritardo di 11 mesi che ha portato i due condannati nell’inchiesta di “Cosa Mia” iniziata nel 2010 a Reggio Calabria a tornare in libertà, tra cui Teresa Gallo, che era stata condannata a 17 anni e 5 mesi di carcere.
Giuseppe Salvaggiulo su La Stampa scrive che il processo nato dall’allora procuratore Giuseppe Pignatone, ora procuratore a Roma, era nato da una sanguinosa guerra di mafia tra gli anni Ottanta e Novanta per il controllo delle cosche della ‘ndrangheta sui lavori dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria, dove chiedevano una tangente del 3% alle imprese spacciandola per “tassa ambientale” o “costo sicurezza”:
“Il processo si è svolto con relativa celerità, considerando l’ampiezza della materia da trattare, il numero di imputati e alcune rilevanti difficoltà logistiche. Basti pensare che la polizia penitenziaria, intimorita dalla caratura degli imputati, si rifiutava di trasportarli nell’aula del processo. Per garantire lo svolgimento del processo, il ministero fu costretto a mobilitare i reparti speciali, usati in genere solo per sedare le rivolte nelle carceri. Nel 2013 la corte d’assise commina 42 condanne per complessivi trecento anni di carcere, con una sentenza monumentale di 3200 pagine. Impianto sostanzialmente confermato nella sentenza d’appello, pronunciata a fine luglio dell’anno scorso.
A questo punto, non resta che il passaggio in Cassazione, il più celere. Dato che la durata massima della custodia cautelare è di sei anni e i boss furono arrestati nel giugno 2010, il calcolo è semplice. La corte d’appello avrebbe dovuto depositare le motivazioni entro 90 giorni (quindi entro fine ottobre 2015), poi gli avvocati avrebbero avuto 45 giorni per presentare il ricorso in Cassazione. Ai supremi giudici sarebbero rimasti sei mesi, fino alla scadenza del termine della carcerazione preventiva, per chiudere il processo con la sentenza definitiva. Un tempo più che sufficiente: in Cassazione è prassi anticipare i processi per i quali sta maturando la prescrizione (fu così per il caso Berlusconi, frode fiscale, nell’agosto 2013) o stanno per scadere i termini di carcerazione degli imputati.
Liberi tutti
Invece in questo caso i termini sono scaduti la scorsa settimana senza che la Cassazione abbia nemmeno ricevuto le carte del processo, ancora ferme nella corte d’assise di Reggio Calabria perché il giudice Stefania Di Rienzo non ha ancora depositato le motivazioni della sentenza. Scaduto il primo termine di 90 giorni, aveva chiesto una proroga: altri tre mesi. Spirati invano. Di mesi ne sono trascorsi undici e delle motivazioni non c’è traccia.
E così tre imputati, a dispetto della doppia condanna per associazione mafiosa, nei giorni scorsi sono usciti dal carcere. Altri dieci erano tornati liberi precedentemente, sempre per scadenza dei termini della custodia cautelare. Il danno processuale è enorme, quello sociale maggiore. Il ritorno alla libertà degli ’ndranghetisti ne rafforza il potere e scoraggia chiunque (sia dentro che fuori dal sodalizio criminale) dalla collaborazione con la giustizia.
Non è un caso isolato. In questi giorni si celebra a Catanzaro l’appello del processo Revenge, con sette imputati di mafia. Peccato che sarebbe dovuto partire nel 2011, ma sono stati necessari cinque anni per formare un collegio di giudici. E sei anni non sono bastati ad arrivare a sentenza nel processo ai caporali di Rosarno.
Il panorama
Fotografie di una resa giudiziaria nella regione con il record di Comuni commissariati per infiltrazioni mafiose e in cui, recita l’ultima relazione della Direzione investigativa antimafia (Dia), la ’ndrangheta opera un «atavico, asfissiante strangolamento del territorio» e rappresenta «un pesante fattore frenante per lo sviluppo economico e sociale» grazie alla capacità di «fare sistema» attraendo «nella propria sfera di influenza soggetti legati al mondo dell’imprenditoria, della politica, dell’economia e delle istituzioni»”.