L\’ennesima esternazione dell\’ex Ministro del Lavoro Elsa Fornero è nuovamente verso i giovani, quelli che in passato lei stesso aveva definito \”choosy\”, schizzinosi nella ricerca del lavoro, in sostanza alla loro non addatabilità a fare qualsiasi genere di lavoro, concetto opinabilissimo ma ora, come dicevamo, si è rivolta nuovamente verso i giovani dicendo loro di non pensare alla pensione ma a lavorare. È giusto che pensino al lavoro, ma nel momento in cui le opportunità di lavoro ci fossero, perchè con un tasso di disoccupazione pari ad un quasi 37% c\’è poco da pensare al lavoro per i giovani. \”L\’Italia è un paese che invecchia sempre di più e non per colpa dei giovani che non vogliono lavorare ma per un sistema politico del quale lei stessa ne ha fatto parte, che non gli da la possibilità di farlo, gentilissima Elsa Fornero!\”
Elsa Fornero: «I giovani? Pensino al lavoro, non alla pensione»
Secondo l\’ex ministro, il vero problema è non avere un lavoro stabile e ben retribuito. E sull\’equiparazione dell\’età tra uomini e donne dice: «Non possiamo permetterci nuovi privilegi»
La pensione è diventata un miraggio. Dato che l’aspettativa di vita degli italiani si è alzata, l’età pensionabile è stata di conseguenza ricalcolata e si è spostata di nuovo in avanti di altri 5 mesi, ovvero, detta in altri termini, bisogna arrivare a 67 anni (se non si hanno i requisiti per quella anticipata), prima di prendere l’agognata pensione. Che speranze ci possono essere per chi oggi è giovane, per chi alla pensione ci deve pensare anche se non ci conta troppo?
Ne discutiamo con Elsa Fornero, professoressa universitaria di Economia Politica, nonché autrice di quella famosa riforma del sistema pensionistico pubblico italiano che porta il suo nome.
Per i ragazzi ha ancora senso pensare alla pensione pubblica?
«Dal punto di vista teorico, certo, uno potrebbe immaginare un futuro in cui ciascuno provvede da sé, magari appoggiandosi al mercato assicurativo che già fornisce degli interessanti prodotti pensionistici. La verità, però, è che noi abbiamo un sistema pensionistico quasi interamente pubblico dal quale di fatto non possiamo uscire: chi lavora oggi versa i contributi che servono per pagare le pensioni di adesso. Se i giovani uscissero dal sistema, chi pagherebbe le pensioni degli attuali pensionati? A loro volta, i giovani dovrebbero però avere la ragionevole certezza che, quando saranno anziani, ci saranno altri giovani a versare contributi per il finanziamento delle loro pensioni. Anni fa avevo proposto, insieme al mio maestro Onorato Castellino, un’opzione di “opting out”, molto graduale e per l’appunto limitata ai giovani, che si sarebbe potuta finanziare con una riforma delle pensioni di anzianità: i nuovi assunti avrebbero potuto avere la facoltà di trasferire parte della propria aliquota contributiva a uno schema previdenziale privato (fondo di categoria, fondo aperto o conto pensionistico individuale): data l’aliquota contributiva elevata che abbiamo, pari al 33%, si poteva prevedere, per i giovani, di sposare una parte di quella aliquota, diciamo 8 punti percentuali, in fondi pensione, in modo da avere un bilanciamento tra sistema pubblico e sistema privato. Ma finora, nel panorama italiano, il termine “privatizzazione” applicato alla previdenza ha rappresentato una sorta di tabù e comunque l’operazione sarebbe costata troppo e alla fine non se n’è mai fatto nulla. Oggi l’unico modo che i giovani hanno per sfuggire è andare all’estero, ma non è quello che vogliamo: abbiamo bisogno che i ragazzi restino qui e e che abbiano prospettive qui…».
Se però rimangono in Italia, che cosa devono fare i trentenni rispetto alla loro pensione? Che cosa consiglia loro?
«È indubbio che oggi tutti i giovani abbiano un’incertezza maggiore rispetto a quella che ha caratterizzato per esempio la mia generazione. Io faccio la professoressa in Università e sono a contatto con i ventenni tutti i giorni. A loro ho sempre cercato di insegnare il senso del dovere, cercando di allargare gli orizzonti. Devono avere fiducia nel futuro, che non vuol dire avere un atteggiamento ciecamente ottimistico: devono formarsi e studiare, raccogliere tutti gli strumenti per affrontare al meglio il domani che verrà. Devono studiare tanto, devono mettersi in gioco, devono impegnarsi. Certo, possono iniziare a risparmiare e magari mettere via qualche soldo in un fondo pensione, ma possono farlo soltanto se hanno un’occupazione e un reddito adeguato. Questo significa che più che alla pensione conviene loro pensare al lavoro: a che vengano loro pagati i contributi, a che non vengano sfruttati in stage inutili».
Ma, dal punto di vista pratico, come si potrebbero aiutare i più giovani? Si potrebbe pensare di intervenire sulle pensioni di oggi per preservare quelle di domani?
«Questa misura avrebbe una logica non tanto in funzione di una “garanzia ai giovani”, ma dal punto di vista della giustizia. Credo che per le pensioni retributive superiori, diciamo ai 3-3,5 mila euro netti al mese, si possa ancora prevedere un contributo di solidarietà. Avrebbe senso, sarebbe equo. Così come per i famosi vitalizi: non capisco ad esempio come il Senato, e in particolare il suo presidente, non abbiano preso un’iniziativa in questo senso, come per esempio ha fatto la Camera. È vero che stanno discutendo sull’argomento, ma è improbabile che il disegno di legge presentato da Matteo Richetti, che prevede il ricalcolo dei vitalizi secondo il metodo contributivo, possa essere approvato: nasce sotto forti dubbi di costituzionalità, non si capisce perché dovrebbe valere solo per la categoria dei parlamentari e non per tutte le pensioni retributive di importo elevato, che comprendono un generoso regalo (a spese altrui)».
E dunque? Se non si tagliano le pensioni che cosa si può fare per loro?
«Credo che oggi tutte le risorse che si hanno debbano essere messe sulla formazione, sull’accompagnamento e sull’inserimento in un mondo del lavoro che cambia con velocità fino a qualche tempo fa impensata. Se i giovani hanno un lavoro come si deve, giustamente retribuito, la pensione ce l’avranno. Il problema dei giovani non è tanto che non avranno una pensione, è che non hanno un lavoro stabile e ben retribuito ed è lì che noi dobbiamo concentrare gli sforzi. Viene fatto un terrorismo psciologico, solo per sfuggire ai problemi veri, che per l’appunto sono quelli occupazionali…».
E il famoso riscatto della laurea ha senso?
«Sì, assolutamente. Oggi è meno conveniente rispetto a qualche anno fa, ma è comunque una cosa che ha senso fare».
Lei, quando ha ricoperto la carica di ministro del Lavoro, aveva la delega alle pari opportunità: che cosa ci dice sulle donne, che ora andrebbero in pensione alla stessa età degli uomini?
«Io penso che dobbiamo davvero prendere sul serio il tema delle pari opportunità: così come chiediamo le stesse opportunità per la formazione e il lavoro, così è giusto che ci siano gli stessi trattamenti. Si ha l’abitudine ad accettare le discriminazioni e per poi chiedere delle compensazioni. Questo è paternalismo, non eguaglianza di opportunità. La diseguaglianza di trattamento rispetto alle pensioni non è più accettata in Europa, proprio per quel basilare principio di parità. Non vuol dire che non si possano riconoscere alle donne delle condizioni particolari: per esempio fare figli contribuisce alla sostenibilità del sistema pensionistico e allora si potrebbero prevedere dei contributi aggiuntivi per le donne che hanno avuto figli, così si anticipa il raggiungimento dei contributi sufficienti per la pensione. Certo, si possono prevedere differenze di trattamento, ma non basate sul genere: per esempio, si può tener conto delle professioni usuranti e per questi lavoratori si può prevedere una diversa età di pensionamento. Ma sono eccezioni, casi da analizzare, non si può generalizzare: c’è un problema di carenza di risorse, non ci possiamo permettere nuovi privilegi. E le donne possono essere aiutate in alcuni casi specifici, ma non sempre, solo in quanto donne. Non sarebbe una parità».