A Palazzo di Giustizia la testimonianza dell’ex rampollo della dinasty della mafia calabrese Domenico Agresta nell’ultimo stralcio del processo Minotauro di ritorno dalla Cassazione
La voce riecheggia da un monitor scuro adagiato a pochi metri dalla Corte. Sbuca come un’eco lontana nei sotterranei di palazzo di giustizia. In aula, silenzio.
Parla per cinque ore, Agresta, nell’ultimo stralcio del processo Minotauro di ritorno dalla Cassazione. Sette imputati, tra questi il cugino omonimo del pentito e lo zio. Parla di ‘ndrangheta, doti, riti, affari, omicidi. E faide, cocaina, pistole, fucili, armi. Di gente ammazzata per uno «sgarro», di soldi a palate, di cavalieri del crimine. Disegna la sua parabola criminale concentrata nel triangolo tra Platì, Volpiano e Buccinasco che sono poi – nei gerghi investigativi e senza l’intento di generalizzare alcunché – tre città accomunate dalla forza con cui le famiglie della costa jonica reggina sono penetrate a partire dagli Ottanta fino ad oggi.
Racconta, Agresta, di come cambiano i codici di affiliazione «ogni volta che c’è un pentito se ne trovano di nuovi». Per lui, i boss ristretti in carcere hanno richiamato Garibaldi, Mazzini e La Marmora, ma anche altri personaggi dai nomi impronunciabili, bisbigliati nell’ora d’aria in cortile per dargli «la santa», il «vangelo», il «trequartino», il «padrino». Una corsa alle promozioni inarrestabile «per via del cognome che porto. Mio nonno ha comandato tutto il Piemonte, ha fondato il “locale” di Volpiano. Io mi chiamo come lui», dice. E rivendica una sorta di baronia criminale.
Il pm Monica Abbatecola lo ha visto nascere dal punto di vista criminale. Mentre lui veniva arrestato nel 2008 nel parcheggio sotterraneo dell’ospedale San Camillo a Roma in fuga da Torino, lei lavorava già – insieme ai colleghi – alla maxi inchiesta Minotauro e lo avrebbe arrestato di lì a poco per associazione a delinquere di stampo mafioso. Lo interroga per quattro ore, lo incalza, cerca di «svuotarlo» dei mille aneddoti che Agresta racconta in sequenza come un libro. Negli anni di carcere ha scalato a piè pari le gerarchie dell’associazione «sponsorizzato» da un superboss dei calabresi a Torino: Cosimo Crea. Nel novembre del 2016 il pentimento. «La scuola mi ha cambiato, ho capito che si può vivere senza commettere reati, senza violenze. Mi sono diplomato in carcere».
Racconta anche che «Rocco Marando (suo zio, l’altro collaboratore di giustizia che 10 giorni ha ritrattato tutto), fu avvicinato dai familiari subito dopo la scelta di collaborare. «Agganciarono un prete in carcere e gli offrirono dei soldi. Lui promise di rimangiarsi tutto, poi non l’ha fatto». Fino alla penultima udienza. Ce ne vorrà un’altra per il baby boss del Nord: il suo racconto non è finito.