\”Leggo con piacere che lo Stato continua la sua lotta contro la \’ndrangheta, e vedo in questi importanti risultati un segnale deciso e netto delle Istituzioni. So bene cosa significa fare imprenditoria in un territorio ad alta concentrazione mafiosa, e quindi incoraggio tutti a non desistere in questa lotta alla criminalità; credo nel libero mercato, e credo che la libertà di impresa sia tale solo senza mafia\”. Così Pino Masciari commenta le condanne inflitte al clan Barbaro-Papalia.
Milano. Condanne anche in appello per il clan Barbaro-Papalia e l’imprenditore Maurizio Luraghi. Confermate le pene fino a nove anni di carcere per cinque imputati coinvolti nel processo sulle infiltrazioni della ’ndrangheta nel settore del movimento terra nei cantieri edili di Milano e dell’hinterland, per un giro d’affari di svariati milioni di euro. Luraghi è accusato di aver svolto la funzione di \”testa di legno\” per ottenere appalti che poi subappaltava illecitamente ai complici. La sentenza è stata emessa ieri dalla quarta corte d’appello, che ha ratificato le conclusioni cui era giunto in primo grado il collegio della settima sezione penale l’11 giugno 2010.
Gli imputati erano stati tutti arrestati il 7 luglio 2008 per associazione di stampo mafioso. Le decisione dei giudici di secondo grado arriva dopo una lunga camera di consiglio, durante la quale hanno valutato e poi rigettato la richiesta del sostituto procuratore generale Laura Bertolé Viale di aumentare le pene per gli imputati principali: per Salvatore Barbaro, ritenuto il capo emergente della cosca in Lombardia, erede del capo dei capi della ’ndrangheta in questa regione Rocco Papalia (ergastolano del quale è genero) e per il padre Domenico Barbaro detto \”Nico l’australiano\”. Confermate anche le altre condanne a 7 anni per il fratello di Salvatore, Rosario, a 6 anni per Mario Miceli e 4 anni e mezzo per Luraghi.
\”Gli imprenditori saranno ancora più omertosi in futuro perché, anche se denunci, nessuno ti protegge\”, si era difeso Luraghi davanti al giudice. Accusato di aver messo a disposizione la sua impresa per gli interessi dell’ndrangheta, cercò di ribaltare le parti. \”Io sono qua imputato — disse — solo perché mi hanno messo una cimice in macchina. Se l’avessero fatto con altri imprenditori sarebbe successo lo stesso\”. Luraghi raccontò di aver subito 15 attentati a escavatori e mezzi. \”Voglio vedere come facevo a non far lavorare quella gente. È lo Stato che deve sapere come questi possano avere partite iva, aziende, garanzie e mutui. Troppo facile è per loro farci la concorrenza\”. Luraghi disse di sentirsi \”uno che viene condannato perché non ha denunciato\”. In carcere, concluse, \”ci sono già stato e non ci torno più, qualunque sia l’esito\”. Nel corso della sua requisitoria in primo grado, il pm Dolci aveva puntato il dito contro di lui: \”Voleva ottimizzare i suoi guadagni pagando quella che, nella letteratura sul fenomeno mafioso, viene definita estorsione-tangente\”.
di Mario Consani, tratto da Il Giorno