Non hanno battuto ciglio. In piedi dietro le sbarre della gabbia. Il 73enne Domenico Barbaro con jeans e giacca, le mani giunte, il 37enne Rosario Barbaro con una polo rossa, il fratello 35enne Salvatore con una maglia blu. Loro, i temuti boss del clan Barbaro-Papalia, la condanna in qualche maniera l’avevano messa in conto. E anche se i giudici della Settima sezione penale hanno applicato la mano più morbida rispetto alle richieste del pm Alessandra Dolci, il colpo deve essere stato comunque doloroso. Il giudice Aurelio Barazzetta ha letto il dispositivo alle alle 13 in punto: 9 anni di carcere a Salvatore Barbaro, ritenuto il “promotore” dell’associazione mafiosa, 7 anni a testa per il padre Mico l’australiano e il fratello Rosario. Insieme a loro, in quella che è una sentenza destinata a fare storia, anche l’imprenditore milanesissimo Maurizio Luraghi condannato a 4 anni e 6 mesi, al quale sono state concesse le attenuanti generiche. Il primo imprenditore del nord condannato a Milano per aver non solo favorito il clan ma aver partecipato alla pari nell’associazione. Condannato a 6 anni anche Mario Miceli, mentre la moglie di Luraghi, Giuliana Persegoni, è stata l’unica assolta per non aver commesso il fatto. Rispetto alle richieste dell’accusa sono decaduti il reato d’estorsione (il capo b) e il comma 4 dell’articolo 416 bis (l’uso delle armi). Disposto dalla Corte anche il sequestro delle quote societarie delle imprese legate ai Barbaro e a Luraghi.
Quella di oggi è una sentenza storica per Milano. E non solo perché di mezzo c’è un imprenditore privo di legami di sangue con le cosche calabresi. Era dagli anni Novanta, dalla grande stagione dell’Antimafia, che a Milano non si assistevano a condanne per il reato di associazione di stampo mafioso. La sentenza di oggi, seppure in primo grado, chiude le porte ad anni di ambiguità, di non detti, di distinguo: a Milano la mafia c’è, e viene condannata. E queste pene sono una risposta indiretta anche alle parole del prefetto Gian Valerio Lombardi che a inizio anno aveva parlato di “sostanziale assenza della mafia a Milano” davanti alla Commissione parlamentare antimafia. E una risposta arriva anche al sindaco Letizia Moratti, artefice insieme al prefetto, della mancata creazione delle commissione comunale antimafia. La mafia c’è. C’è a Corsico, a Buccinasco, a Cesano Boscone come a Milano. Secondo le accuse, quindi, il clan guidato dalle famiglie Barbaro-Papalia ha gestito, controllato, il mercato del movimento terra e quello immobiliare nell’hinterland milanese per oltre vent’anni.
Ma queste condanne segnano anche un precedente importante sul fronte giudiziario. L’attesa per questa sentenza, infatti, era legata anche al futuro di altri due processi quello delle inchieste Parco sud 1 e 2 dove insieme ai boss calabresi sono implicati altri imprenditori e politici locali. Indagini scaturite appunto dal presupposto dell’esistenza di un’associazione mafiosa guidata dal clan Barbaro-Papalia. Oggi quel presupposto è suffragato dalla sentenza. L’inchiesta Cerberus, si chiude quindi con una vittoria per due degli artefici dell’inchiesta: il pm Alessandra Dolci, in forza alla Direzione distrettuale antimafia di Milano e il colonnello Domenico Grimaldi (nella foto) ex capo del Gico della guardia di Finanza oggi alla guida del comando provinciale di Pavia. Grazie alle loro indagini, grazie ad un informativa di quasi 1.500 pagine con ricostruzioni minuziose, intercettazioni telefoniche e ambientali e lavoro sul campo, si chiude quindi una delle pagine più buie della ‘ndrangheta al Nord. Da non dimenticare poi, il contributo arrivato durante le indagini da alcuni esponenti politici locali, come l’ex sindaco di Buccinasco Maurizio Carbonera. Lui, oggi alla guida dell’opposizione in consiglio comunale, nelle carte dell’inchiesta ha raccontato delle minacce subite, delle auto bruciate, delle famose tre croci lasciate in un campo accanto al Comune durante l’approvazione del Pgt. Un tributo di tenacia (da parte degli uomini della Finanza) e di coraggio, che non ha avuto eguali durante tutta la fase del dibattimento, quando in aula hanno sfilato una quindicina di imprenditori (quasi tutti del Nord) sentiti come teste dell’accusa. I loro silenzi, le loro parole mancate, le negazioni di estorsioni e intimidazioni subite restano oggi come una delle vicende più vergognose della lotta alla mafia a Milano.
direttanews.it