Intervista con Roberto Di Bella, Presidente del tribunale per i minori di Reggio Calabria
di Fraterno sostegno ad Agnese Borsellino e Osservatorio veneto sul fenomeno mafioso:
Quante probabilità ha un ragazzo, figlio o nipote, di un appartenente all\’ndrangheta, di essere inserito nella cosca mafiosa o comunque di diventare un delinquente? Cosa può fare lo stato per impedirlo? Risponde il magistrato Roberto Di Bella: \”Quello che io vedo, lavorando da 25 anni al Tribunale per i Minorenni di Reggio Calabria, è la continuità generazionale…\”
Il Giudice Roberto Di Bella, 53 anni, è in magistratura da quasi 30 anni, e si è occupato quasi sempre di giustizia minorile. Dal 1993 a Reggio Calabria, è stato 5 anni a Messina e poi è ritornato nella città calabrese, dal 2011 è presidente del Tribunale per i Minorenni nel capoluogo reggino, quindi con competenza in materia minorile su tutta la provincia. Insieme ai suoi colleghi sta cercando di sottrarre nuove leve alla criminalità organizzata calabrese. Come? Allontanando “i figli di ‘ndrangheta” dalle loro famiglie di origine, cercando di dare un futuro sereno e normale a ragazzi destinati a diventare boss. In questa conversazione ci ha spiegato il perché e quali sono gli strumenti che applicano.
Roberto Di Bella
Dottore Di Bella lei è in magistratura da quasi 30 anni, e in pratica, si è occupato quasi sempre giustizia minorile. Dal 1993 a Reggio, è stato 5 anni a Messina e poi è ritornato Reggio, dal 2011 è presidente del Tribunale per i Minorenni nel capoluogo reggino, che tipo di reati vengono commessi dai minori nelle due regioni? C’è differenza tra violazioni?
“In Calabria vengono commessi reati molto gravi. Negli anni abbiamo avuto diversi casi di omicidi, detenzione e porto di armi; abbiamo giudicato minori che hanno commesso estorsioni o che hanno favorito la latitanza di esponenti ndranghetistici. Altri coinvolti a pieno titolo nelle dinamiche delle faide e associative. Questo accade perché la ‘ndrangheta ha una struttura su base familiare e allora c’è spesso una continuità all’interno della stessa famiglia.
Quello che io vedo, lavorando ormai quasi da 25 anni al Tribunale per i Minorenni di Reggio Calabria, è la continuità generazionale. Avendo un lungo periodo di esperienza professionale sempre nello stesso posto, ho avuto la possibilità di avere uno sguardo privilegiato sul mondo minorile della provincia reggina e ho notato che adesso mi trovo a giudicare i figli di coloro che giudicavo negli anni 90. Tutti con lo stesso cognome,tutti appartenenti alle famiglie storiche del territorio, più o meno con gli stessi reati, e questo rappresenta una conferma che c’è una ereditarietà. C’è una trasmissione di cultura ndranghetistica da padre in figlio, e ciò viene dimostrato anche dal dato oggettivo che da 70/80 anni ci sono le stesse famiglie sul territorio. Questo è possibile soltanto se c’è questa trasmissione di valori negativi all’interno di esse. In Calabria emerge in modo netto”.
Allora quante probabilità ha un ragazzo, un parente o un nipote, anche in linea collaterale, discendente da una famiglia mafiosa, di essere inserito nella cosca o comunque di diventare un delinquente? Ad esempio il figlio della sorella di un boss, che pur non ha lo stesso cognome del capo famiglia, quante possibilità ha di essere inserito nella cosca e diventare delinquente?
“Non so darle una percentuale, ma la probabilità è alta, altissima. Perché se vivi in quelle famiglie respiri sempre quell’aria, quella cultura ed è anche difficile poterne uscire. Al momento, i dati di fatto dicono proprio questo: che è molto difficile starne fuori. Perciò bisogna puntare molto sull’educazione. Noi, come Tribunale per i Minorenni, possiamo intervenire quando già ci sono situazioni patologiche. Il problema è questo, bisogna invece puntare sull’educazione e sulla scuola.
Ed è quest’ultima istituzione che deve fare di più. Adesso ci sono dei segnali di progresso nell’ambito educativo, ma negli anni passati non sempre è stato così. Bisogna investire di più sull’educazione, sul tempo pieno a scuola. Bisognerebbe, già dalle elementari, far stare i bambini il più possibile in classe ed avere Insegnanti preparati, capaci anche di affrontare le tematiche della legalità e del contrasto alla ‘ndrangheta. Certamente con gradualità ma bisogna affrontarle. Ma nella provincia, in certi territori, ciò non sempre è avvenuto.
Tra il 2006 e il 2007 ci fu la faida familiare di San Luca, che poi sfociò nella strage Duisburg. In quei mesi, le famiglie contrapposte non mandarono i figli a scuola per timore di ritorsioni. Ma lo abbiamo saputo dopo, solo nel corso del processo, 6/7 anni dopo, perché c’erano diversi minorenni coinvolti anche in quella vicenda. E lo abbiamo saputo solo grazie alle testimonianze dei Carabinieri, non certo dalla scuola. Da questa non era arrivata alcuna segnalazione che riguardasse la dispersione scolastica di quei ragazzi. Qualcosa non ha funzionato, eppure le assenze in quel contesto particolare andavano segnalate, c’era una situazione di pericolo e, comunque, di disagio; e penso che chi lavorava in quei contesti all’epoca sapeva perfettamente quello che stava accadendo. Poi quel paesino è piccolo, i cognomi sono sempre quelli. Quindi gli Insegnanti potevano avere cognizione dei motivi. Se non c’è una collaborazione da parte della scuola e delle altre agenzie educative alternative alla famiglia, i nostri interventi li possiamo fare solo successivamente, su situazioni patologiche”.
Noi notiamo che in alcune realtà, nonostante la scuola sia presente con vari progetti sulla legalità in classe, sembra che tutto ciò non venga recepito dai ragazzi che comunque vivono all’interno di un certo tipo di famiglia la quale rende complessa la recezione di determinati valori sani. Le faccio un esempio. Parlando con una rappresentante delle Forze dell’Ordine, che presta servizio nella zona jonica calabrese, e spesso si reca nelle classi per parlare con i ragazzi, questa ci disse “Noi possiamo fare tutte le lezioni sulla legalità che desideriamo ma ci sono ragazzini che a 10/11 anni tornano a casa e vedono il loro padre, o fratello, che a fine cena, o pranzo, si nasconde in un bunker, allora questi avranno oggettivamente quella visione, per loro la normalità sarà quella”.
Bisogna però contrastarla questa visione. Per questo dico che serve una scuola a tempo pieno già a partire dalle elementari e cominciare ad affrontare queste tematiche già in piccola età. Il vero problema è che non c’è una preparazione specifica. L’educazione alla legalità non può essere lasciata soltanto ai Magistrati, ai Carabinieri o altri del settore, ma va fatta da Insegnanti preparati, con programmi strutturati sulle esigenze specifiche del territorio. E l’approccio coi giovani deve essere chiaro; bisogna far comprendere quello che è la criminalità organizzata, delle sofferenze che provoca, di ciò che è giusto e di tutto ciò che non lo è. Bisogna cominciare a fare controinformazione in un certo senso, ma già da piccoli e con gli Insegnanti, perché il magistrato può incontrare i ragazzi una volta ogni tanto, mentre l’Insegnante è sempre presente in classe, è un punto di riferimento e non è una presenza sporadica. Bisognerebbe, anche, mandare nelle scuole le vittime di mafia e/o i parenti delle vittime, a raccontare le loro storie, la loro sofferenza e il tutto andrebbe accompagnato con la visione di film che abbiano un impatto emotivo sui ragazzi. A me è capitato, ad esempio, di ascoltare in un dibattito Tiberio Bentivoglio, l’ Imprenditore calabrese che si è ribellato al pizzo. Ha fatto un racconto della sua vita, delle sofferenze sue e dei suoi familiari, veramente toccante; ha narrato di quando hanno cercato di ucciderlo, di come gli sparavano e sentiva i colpi addosso e di altre cose terribili; e questo va raccontato ai ragazzi. Devono sapere quello che accade”.
Molti dei punti che lei cita, per i programmi didattici, esistono già nelle linee di indirizzo del Ministro Fioroni (2007), e riguardano l’educazione alla legalità finalizzata alla lotta alla mafia. Punti che sono stati studiati ed elaborati proprio dal Professore Guidotto, presidente dell’Osservatorio veneto sul fenomeno mafioso. E noi abbiamo seguito queste linee guida e le abbiamo riportate nel progetto scolastico sulla legalità che abbiamo studiato con l’Osservatorio e con il gruppo “Fraterno sostegno ad Agnese Borsellino.” E lo stiamo proponendo in alcune scuole italiane, dove è stato adottato con entusiasmo, specie in meridione e in zone ad alta pervasività mafiosa. Con Insegnanti che preparano preventivamente questi ragazzi, con la visione di film o con lettura di saggi in classe. E poi visite guidate in certi luoghi e incontri in classe con persone che hanno vissuto, o vivono, la criminalità sulla propria pelle. Ma è una goccia nel mare perché, allo stesso tempo, a noi risulta che molti docenti e dirigenti hanno trascurato, o ignorato, del tutto queste linee di indirizzo nella parte riguardante proprio l’educazione alla legalità sulla lotta alla mafia. Secondo lei perché c’è questa omissione generalizzata nella scuola?
“Questo non glielo so dire. Ma i programmi scolastici – soprattutto quelli afferenti all’educazione civica – devono essere strutturati in base alle problematiche specifiche del territorio in cui vengono adottati. E poi, soprattutto, le scuole dovrebbero collaborare di più con la magistratura minorile. Da quando sono tornato a Reggio Calabria nel 2011, ho notato che le scuole non comunicano le situazioni di disagio dei ragazzi appartenenti a determinati contesti. A noi, in questi anni, sono arrivate solo due–tre segnalazioni di condotte irregolari agite da minori appartenenti a famiglie di ‘ndrangheta; e per giunta, una di queste segnalazioni l’ha fatta la moglie di un magistrato. Quindi le scuole non segnalano le condotte irregolari. Questi minori, che appartengono alle famiglie di ‘ndrangheta,e vengono arrestati a 16-17 anni per vari reati, fino a quell’età, e prima dell’arresto, andavano a scuola. E’ possibile che non vi era nessun segnale di disagio o di irregolarità della condotta? Questo ci stupisce molto, ci sorprende che non arrivi nessuna segnalazione dalla scuola, che come agenzia educativa dovrebbe portare alla nostra attenzione questi casi.
Adesso abbiamo siglato un protocollo in Prefettura in cui chiediamo espressamente ai dirigenti scolastici di fare le dovute segnalazioni, anche con riunioni. Devono segnalare tutte le situazioni di disagio di cui sono a conoscenza. Non solo dal punto di vista penale ma anche da quello legittimante l’adozione di provvedimenti civili, ovvero quando ci sono situazioni che rivelano sintomi di un malessere familiare. Altra cosa, molto importante, sarebbe la presenza nelle scuole di determinati contesti di uno sportello psicologico e di uno psicologo, non del luogo, che sia in grado di cogliere segnali di disagio dei ragazzi e aiutarli. Occorre poi fare cultura. Servono centri di aggregazione sociale come i “ punti luce” creati da Save the Children, che organizza attività culturali, di sostegno allo studio e ricreative nei contesti più a rischio. Esistono realtà– come quella di S. Luca – tristemente famose in Europa in cui solo adesso si sta cominciando a focalizzare l’attenzione e considerare il grave problema culturale. Che deve essere risolto con la predisposizione di servizi socio-sanitari adeguati al territorio, con la creazione di centri di aggregazione culturale e sportiva. Con insegnanti e dirigenti scolastici capaci di ampliare gli orizzonti culturali dei ragazzi, così come lo è stata la prof.ssa Cacciatore”.
Foto da https://www.avvenire.it/attualita/pagine/mappa-comuni-commissariati-per-mafia
Infatti per molto tempo il fenomeno ‘ndrangheta è stato sottovalutato ma non solo in Calabria. Lei prima accennava alla strage di Duisburg. In Germania già da 40 anni c’è la presenza della criminalità organizzata calabrese. Ci sono intercettazioni, già di fine anni 80, inizio 90, in cui si evinceva che le cosche di Gioiosa Jonica invitavano i propri emissari in Germania, subito dopo la caduta del muro, a comprare interi quartieri della Berlino Est appena liberata. In pratica,la ‘ndrangheta con le sue ramificazioni estere non era stata considerata un problema. Fin quando è rimasta sotterranea, fin quando non ha compiuto stragi. A Duisburg c’era anche un minore di San Luca tra le vittime. Secondo lei perché il problema ‘ndrangheta è stato così sottovalutato?
“È stato sottovalutato. E’ un problema soprattutto culturale oltre che criminale, di cui noi giudici minorili ci rendiamo conto da anni. E’ un problema culturale perché questi ragazzi non conoscono altri tipi di orizzonti; credono che la strada della ‘ndrangheta sia l’unica possibile. Non sanno che esiste un’alternativa perché loro, al di là del loro paese e della famiglia, non riescono a vedere. Quindi serve un’infiltrazione di cultura ed è quello che sta alla base del nostro orientamento giurisprudenziale, che nei casi estremi comporta provvedimenti di decadenza o limitazione della responsabilità genitoriale”.
Parafrasando il termine latino dello ius sanguinis, che riguardava la cittadinanza romana acquisita per nascita, potremmo dire che l’appartenenza alla famiglia di ‘ndrangheta dà il diritto a diventare un boss in futuro. E questo dato ereditario è una delle principali differenze che si nota con Cosa Nostra siciliana. Ora le chiediamo se le è mai capitato che all’interno di qualche famiglia ci sia stato un minore che avesse il desiderio di uscirne anche collaborando.
Collaborazione è un termine forte; però abbiamo incontrato ragazzi e ragazze che ci hanno detto che avevano paura di essere arrestati, che erano stressati dalle continue perquisizioni, dai lutti, dalle carcerazioni dei loro familiari, dalla paura di finire in quel contesto. E quando abbiamo avuto questa comunicazione li abbiamo allontanati ed aiutati ad andare via. E’ accaduto soprattutto con le ragazze, che avevano un forte desiderio di emancipazione”.
Ma come avete fatto ad avere questa comunicazione? Come l’avete appreso?
“Nel corso di procedimenti già in corso, penali o anche civili. Stavamo monitorando delle situazioni familiari ed è capitato. Posso aggiungere che i risultati migliori li stiamo ottenendo con le ragazze, perché andando via riacquistano la loro condizione di libertà. Perché la ‘ndrangheta si impone anche sulle scelte più intime, come può essere un fidanzamento, un matrimonio, sugli affetti e sulle relazioni in generale. La mafia calabrese condiziona la vita di questi giovani che rinascono quando vanno via; con i provvedimenti di allontanamento, adottati caso per caso nelle situazioni di concreto pregiudizio, restituiamo loro la libertà di scegliere e la dignità.
E’ accaduto che i ragazzi quando compiono 18 anni cercano aiuto per restare fuori; alcune ragazze addirittura non vogliono più avere contatti con i familiari. Alla base di tutto c’è la mancanza della libertà e una condizione di forte sofferenza. I risultati fino ad adesso sono andati al di là di quelle che erano le nostre aspettative. Con i ragazzi abbiamo bisogno però di percorsi un po’ più lunghi mentre la maggior parte delle ragazze, superata la prima fase di adattamento, non vogliono più tornare in quell’ambiente. Chiaramente non possiamo allontanare tutti, bisognerebbe creare le condizioni anche in Calabria per evitare gli allontanamenti dalla regione. I nostri provvedimenti in alcuni casi, quelli più estremi, comportano gli allontanamenti. In altri stiamo provando a lavorare anche qui con associazioni come Libera per creare dei percorsi rieducativi, ove sia possibile”.
È capitato che qualche ragazzo dopo essere stato allontanato, e poi reinserito nella famiglia, abbia preso percorsi sbagliati?
“Per reati di mafia no! Soltanto un ragazzo della ionica, dopo essere rientrato a casa, ha avuto un Daspo, il divieto di avvicinamento allo stadio. Al momento per reati di mafia, di quelli che sono rientrati, nessuno è ricaduto in quella spirale. In ogni caso è ancora presto per fare una valutazione, per comprendere ciò che siamo riusciti a instillare. Comunque, abbiamo avuto situazioni in cui c’erano tre o quattro fratelli, i primi giudicati negli anni 90/2000 che avevano commesso reati gravissimi,e si trovano ancora in carcere, mentre quelli più piccoli che noi abbiamo trattato, raggiunta la maggiore età, stanno seguendo percorsi diversi. Tutti i ragazzi di cui ci siamo occupati dimostrano di avere talenti e potenzialità compressi dal deleterio ambito di provenienza. Stiamo provando ad ampliare gli orizzonti di questi ragazzi. Molti di loro sono già rassegnati a quella che è una vita di ‘ndrangheta e anche le relazioni degli Psicologi sono terribili perché si evince un‘enorme sofferenza. Questi giovani hanno grossi problemi: incubi notturni,angoscia per loro e per i familiari, alcuni sognano scene cruente o situazioni in cui devono attivarsi per salvare se stessi o un familiare da un pericolo incombente. C’è una grandissima sofferenza all’interno delle famiglie di ndrangheta e i ragazzi sono le prime vittime delle scelte scellerate dei genitori”.
Roberto di Bella nel suo ufficio
Tutto questo però non trapela all’esterno. Molta gente legge di questi paesini, di cui si parla tanto sui giornali, come luoghi in cui vi sono addirittura matrimoni in grande stile, quasi da favola, ma che poi nella realtà dei fatti sono combinati, quindi non certamente da sogno anzi provocano sofferenze enormi specie nel futuro delle donne.
“I provvedimenti de potestate del tribunale per i minorenni di Reggio Calabria stanno intercettando quasi un bisogno sociale. Ovvero la sofferenza di molti ragazzi e delle loro madri. Molte di loro , quando capiscono che la logica dei provvedimenti non è punitiva ma di tutela, non si oppongono più. Stiamo trovando un grosso aggancio, per portare fuori questi ragazzi, proprio nelle madri. Nel 90% delle situazioni che abbiamo affrontato sono le madri che, dopo aver superato una prima fase di stupore e rabbia, in cui si oppongono, fanno reclami, vanno in appello e altro, collaborano con noi. Noi cerchiamo di colloquiare e dialogare con queste persone, verbalizzando o meno. Le chiamiamo e cerchiamo di farle ragionare. Ad esempio chiedendo loro: “Ma lei cosa vuole fare? Non ha già sofferto tanto con suo marito e anche coi suoi figli? Le resta questo ultimo ragazzino, vorrebbe andare a trovarlo in carcere.? Ci aiuti lei che è il perno della sua famiglia, lei può darci una mano a salvare suo figlio.” E quindi cerchiamo di spiegarglielo, glielo diciamo chiaramente. La funzione del Tribunale per i Minorenni è anche questa”.
Come reagiscono gli altri membri della famiglia? Quando apprendono che la madre sta collaborando con voi, e magari il marito è al 41 bis, qual è la reazione degli altri membri della famiglia?
“In alcuni casi, queste signore, iniziano percorsi di collaborazione con la giustizia quindi sono in regime protetto. Altre invece le aiutiamo ad andare via con dei provvedimenti di decadenza, o limitazione, della responsabilità genitoriale. In sostanza noi allontaniamo i bambini, o i ragazzi, perché ci sono le condizioni di pericolo, poi diciamo “Il padre è in carcere, la madre, se vuole, può seguirli”. A quel punto le madri decidono di seguirli e quindi diamo di fatto una copertura, con il nostro provvedimento, alla signora che può andare con i figli. In questo caso attiviamo il volontariato: Libera,Don Ciotti con l’avvocato Enza Rando, che sono i nostri punti di riferimento. Dunque, queste signore vanno via, e noi le aiutiamo a trovare una sistemazione al nord, ad avere un autonomia, a lavorare, ad avere una vita diversa. Di fatto si allontanano perché sono obbligate dal nostro provvedimento e, quindi, anche davanti alla famiglia hanno una giustificazione; una copertura importante perchè non sono collaboratrici ma di fatto si dissociano e accettano i percorsi che noi offriamo loro”.
Ma c’è una normativa che viene applicata? Perché, genericamente, quando parliamo di dissociazione si fa riferimento alla legge degli anni 80 sulla dissociazione dal terrorismo.
“No, non c’è nessuna normativa sulla dissociazione, sono provvedimenti civili adottati ai sensi degli articoli 330 e seguenti del codice civile.
La normativa sulla dissociazione non esiste. Per questo ci affidiamo solo al volontariato. Noi diciamo che i ragazzi vanno allontanati perché ci sono concrete situazioni di pericolo: ad esempio nei casi di indottrinamento mafioso, quando hanno commesso dei reati sintomatici di una progressione criminosa o quando c’è un rischio ambientale molto elevato. In determinate situazioni estreme siamo costretti ad allontanarli per salvaguardarne l’integrità psico-fisica o per evitare che siano coinvolti in vicende criminali dagli adulti di riferimento. La madre, se vuole, può andare via con loro. E il provvedimento autorizza le madri a seguire i figli”.
Queste donne e questi ragazzi sono della zona ionica della Calabria?
“Sì, nella zona ionica ci sono molti di questi casi. Ma anche della zona tirrenica e di Reggio Calabria. È accaduto anche con mogli di boss potentissimi dai nomi importanti. Molte di loro sono delle vedove bianche; di fatto sono donne di 30-40 anni con figli anche piccoli. Con il marito all’ergastolo è come se fossero delle vedove. La famiglia le “imprigiona”, non possono avere altre relazioni: pertanto, i nostri provvedimenti offrono delle possibilità di riscatto, non solo per i figli ma anche per loro. Molte di esse hanno desiderio di una vita normale, di rifarsi una vita anche affettiva, ma di fatto nella famiglia da cui provengono è impossibile; non verrebbe loro mai permesso. Nella realtà, nel loro paese di origine,possono solo occuparsi dei loro figli, accompagnargli a scuola o fare la spesa ma non possono assolutamente avere altre frequentazioni. Conducono una vita ristretta come fossero prigioniere, per cui l’allontanamento permette di vivere normalmente come non hanno mai vissuto”.
Ma in base alla normativa vigente queste donne, con marito all’ergastolo, potrebbe chiedere, ed ottenere, la separazione.
“Sì, la potrebbero chiedere. Ma quante sono quelle che hanno il coraggio di farlo? E in ogni caso è difficile che nei loro paesi possano allacciare delle nuove relazioni. Con un marito boss rischierebbero la vita. Per loro non è neanche pensabile poter avere nuovi legami affettivi. Trovare il coraggio di separarsi non è facile”.
Diceva il dottore Pietro Grasso, a proposito di questi provvedimenti del Tribunale dei minori, che i sentimenti familiari non si possono togliere con sentenza.
“Ma noi non eliminiamo i sentimenti, anzi coinvolgiamo le madri e cerchiamo anche di coinvolgere i genitori detenuti. E comunque, i nostri sono provvedimenti temporanei perché cessano quando i ragazzi compiono 18 anni. Noi non vogliamo intervenire sui sentimenti, noi vorremmo far capire a questi ragazzi che devono continuare a voler bene ai loro genitori ma possono scegliere strade diverse; non è necessario che per affetto diventino delinquenti a tutti i costi”.
Dei familiari delle vittime delle mafie in marcia a Locri (Foto di Gigi Romano)
C’è qualche episodio particolare dove siano stati i genitori a chiedervi di aiutare i propri figli, magari perchè questi avevano commesso qualche reato particolare, o perchè si erano accorti che stavano prendendo delle strade criminali? Oppure degli episodi in cui siano stati proprio i ragazzi che abbiano chiesto aiuto direttamente per andare via?
“Sì, è capitato. Più volte abbiamo allontanato i ragazzi su richiesta loro o dei genitori”.
Lei è a conoscenza, se ci sono stati, di episodi simili a quelli avvenuti in Cosa Nostra siciliana che riguardino bambini, tipo la storia del piccolo Giuseppe Di Matteo?
“Situazioni di pressioni su minori ne abbiamo avute; infatti anche questo è un altro settore in cui stiamo intervenendo. Abbiamo un circuito comunicativo con le procure antimafia e interveniamo subito in questi casi, affidando immediatamente i minori al genitore che è sotto protezione, quando ne ricorrono le condizioni”.
Quindi viene subito allontanato il bambino dal genitore che non è sotto protezione?
“Quando ci sono le condizioni, quando inizia la protezione, noi interveniamo subito se ci sono segnalate situazioni di pregiudizio per il minore dalle forze dell’ordine o dalla Procura della Repubblica che propone il regime di protezione al genitore”.
Noi ci siamo sempre chiesti perché, all’epoca, il piccolo Giuseppe Di Matteo non fu subito allontanato dalla famiglia e portato al sicuro visto che il padre stava collaborando.
“Quella è una vicenda che io non conosco e su cui non posso esprimere giudizi. Noi a Reggio Calabria abbiamo un protocollo di intesa, siglato il 21 marzo del 2013,con le procure del distretto della Corte di Appello, che prevede un circuito comunicativo tra uffici giudiziari diversi proprio in relazione a questo tipo di problematiche. Adesso c’è una sensibilità diversa. Dopo la vicenda di Maria Concetta Cacciola, che è servita a prendere consapevolezza dei problemi relativi a certe situazioni, si è compreso che vi è la necessità di intervenire immediatamente. Per cui i figli vengono affidati al collaboratore che è sotto protezione. Quando si tratta di madri che iniziano il percorso, e vanno via, e chiedono di avere i figli,lo facciamo subito,e li affidiamo a loro, se ne ricorrono le condizioni”.
Una bambina mostra la foto di Giuseppe di Matteo, figlio del pentito Santino, ucciso in Sicilia dalla mafia a soli 13 anni l’11 gennaio 1996, dopo 779 giorni dal suo rapimento. Foto ripresa da www.archivioantimafia.org
E se fosse il contrario? Cioè, se fosse il padre a collaborare, come fu il caso dell’epoca con Santo di Matteo, e se la madre si opponesse all’allontanamento dei figli?
“È capitato anche questo, e siamo intervenuti. Ci siamo accorti che la condizione dei ragazzi era a rischio di ritorsioni. Chiaramente ci devono essere specifiche indicazioni che provengono dalla Procura o dai Carabinieri; e in questi casi abbiamo subito deciso di allontanare i ragazzi e affidarli al padre. A quel punto è accaduto che le mogli, le quali inizialmente erano rimaste in Calabria, pur di non perdere i figli hanno accettato di entrare nel programma di protezione”.
Qualche mese fa c’è stato il suicidio di Maria Rita Lo Giudice figlia di Giovanni Lo Giudice, che è in carcere per associazione mafiosa, e nipote del collaborante Nino Lo Giudice. Questa ragazza aveva seguito un percorso di studi brillante in Economia, quasi a volersi distaccare dall’ambiente in cui aveva vissuto; ma quanto pesa sulla società civile questo suicidio?
“Bisogna capire innanzitutto quali sono le motivazioni che hanno portato al suicidio. Io ho seguito la vicenda sui giornali e non so di più. Però se la motivazione è proprio quella, è una circostanza gravissima che deve far riflettere. Bisognerebbe aiutare questi ragazzi che vogliono affrancarsi da quell’ambiente e sostenerli con tutti gli strumenti possibili”.
Si è mai occupato di casi di bullismo? E se sì, le problematiche di questi ragazzi erano riconducibili anche a problematiche familiari con possibilità di adottare misure come l’allontanamento dalla famiglia?
“Sì, bullismo legato alla mentalità mafiosa è capitato frequentemente. Questi ragazzi iniziano a commettere piccoli reati per affermare la leadership tra i coetanei, facendo valere il cognome, picchiandoli. E’ una prima forma di affermazione della loro personalità. E quando i genitori non intervengono, o addirittura condividono questa condotta, noi interveniamo.
L’obiettivo dei nostri provvedimenti è quello di tutelare i ragazzi e, nel contempo, operare le necessarie infiltrazioni culturali per renderli liberi di scegliere il loro destino e affrancarsi dalle orme parentali. Ultimamente, a Reggio Calabria, nel luglio di quest’anno, abbiamo siglato un importante protocollo di intesa con i ministri della Giustizia, dell’Interno e il presidente della regione Calabria, che si chiama “Liberi di scegliere”. L’obiettivo è quello di creare dei veri e propri pool educativi antimafia, con professionisti (assistenti sociali, psicologi, educatori, famiglie affidatarie) formati appositamente, che siano in grado di accompagnare passo dopo passo gli sfortunati ragazzi delle ‘ndrine sino al raggiungimento di un’autonomia esistenziale e lavorativa, in un’ottica di affrancamento dalla cultura criminale.
La giustizia minorile ha potenzialità enormi nella prevenzione del disagio minorile e nel contrasto ai sistemi criminali strutturati su base familiare, o locale, come la ndrangheta. Bisogna quindi affinare il campo. Il dato importante è che il nostro orientamento giurisprudenziale, che all’inizio è stato molto disapprovato e giudicato male con critiche prevenute (formulate senza conoscerne i retroscena culturali e i contenuti dei provvedimenti), è stato seguito anche da altri tribunali per i minorenni. L’accordo quadro “Liberi di scegliere” sostanzia una copertura governativa al nostro orientamento giurisprudenziale, proponendosi di costruire delle reti di supporto. E’ un notevole passo in avanti”.
Dottore, c’è un episodio particolare avvenuto con un minore che a lei è rimasto particolarmente impresso?
“C’è uno che ricordo in particolar modo. Riguarda un ragazzino di 11/12 anni che abbiamo inserito in una comunità su richiesta della madre, che temeva per il figlio attratto dalla ndrangheta e dalle armi. Ci ha chiesto di inserirlo in una struttura comunitaria e noi l’abbiamo fatto.
Quando la madre è andata a prenderlo,perché il bambino doveva ricevere la prima comunione, e quindi dovevano andare a comprare il vestito per la cerimonia, ha detto:”Ma quale comunione?? Comprami un fucile per sparare al giudice che mi ha messo in comunità.” Io ho chiamato questo ragazzino e ho parlato con lui, e devo dire che dopo un anno un anno e mezzo ha fatto un buon percorso; aiutato dalla madre sta facendo molti progressi”.
Come l’ha presa il padre in questo caso?
“Il padre ha compreso, tra l’altro non è un pregiudicato ma lo sono tutti i parenti della madre e costoro esercitavano sul ragazzino una fascinazione. Noi stiamo lavorando con l’aiuto della madre stessa e i risultati al momento sono molto positivi. Anche se c’è molto da fare ancora perché non è una cosa molto normale che un bambino di 10-11 anni sia attratto dalle armi e conosca i nomi e il funzionamento dei fucili”.
vittime ndrangheta
Un momento della manifestazione di Locri in ricordo delle vittime delle mafie nell’obiettivo del fotografo calabrese Gigi Romano
Nelle ‘ndrine, essendoci il senso della famiglia molto forte, l’allontanamento di un figlio è visto quasi come quasi un oltraggio. Un Giudice che applica determinate misure, non sarà molto simpatico ai boss che certamente non gradiranno questo tipo di misura.
“Certamente non gradiscono. Però qualcuno ci ha risposto. In particolare abbiamo avuto una lettera di un boss che è detenuto al 41 bis, ci ha ringraziato. Chiaramente si tratta di una persona che è in condizione di sofferenza perché la carcerazione prostra, soprattutto quando si tratta di un regime carcerario del genere. E ci ha ringraziato dicendo che è d’accordo su questo percorso per i figli perché lui non ha avuto questa possibilità; in quanto, se l’avesse avuta, forse, non si troverebbe lì dove sta. Quello che noi stiamo cercando di fare è provare a interloquire anche con queste persone. Stiamo cercando di spiegare quelle che sono le finalità e le motivazioni dei provvedimenti; l’obiettivo è provare innanzitutto a stemperare l’impatto emotivo iniziale cercando di spiegare per quale motivo adottiamo questi provvedimenti.
L’altro obiettivo è quello di provare a cooptare i genitori detenuti nei processi educativi dei figli, facendo leva sui sentimenti genitoriali che tutti hanno anche se a volte questi sentimenti sono sopiti o distorti. Per adesso solo una persona ci ha dato un riscontro positivo”.
Cos’è il coraggio di un giudice?
“Noi facciamo il nostro dovere, applichiamo la legge, ma soprattutto penso che in Calabria, di fronte a tanta sofferenza, non si può restare indifferenti. Vediamo il dolore dei ragazzi e spesso, anche direttamente, quello delle loro madri. La molla che ci fa andare avanti, che ci motiva, è proprio questa sofferenza e il desiderio di aiutarli a trovare un loro percorso. Spesso questi giovani hanno desideri nascosti che sono compressi dalla tradizione e dall’ideologia mafiosa. Penso che far venire fuori questi desideri, aiutare i ragazzi a realizzare le loro aspirazioni e ad esprimere le loro potenzialità, sia una cosa bellissima. Hanno tanti talenti enormi che vengono compressi dalla cultura e dalla mentalità mafiosa. Questo per noi è la cosa più bella, ed è ciò che ci motiva e ci dà molte soddisfazioni. Sono le motivazioni professionali e umane che ci spingono, che in questo delicato settore di giurisdizione devono andare di pari passo”.
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Anche i figli della ‘ndrangheta so’ pezzi a cuore della giustizia