Confiscati i beni a un imprenditore considerato il referente del clan Muto sulla Riviera romagnola. E il procuratore Giovagnoli annuncia: \”E\’ solo l\’inizio, i sequestri proseguiranno, ce ne saranno altri entro breve. Sono l\’arma in più per sconfiggere la grande criminalità in trasferta al nord\”
I sigilli arrivano nella culla del turismo, sulla riviera romagnola, dove la magistratura ha confiscato beni riconducibili alla ‘ndrangheta. La magistratura di Cosenza ha disposto il sequestro di terreni, fabbricati, alberghi, stabilimenti balneari e pizzerie. In tutto beni immobili e mobili per un valore di 2 milioni di euro. Due degli immobili si trovano nel Comune di Bellaria-Igea Marina, altri in varie località del Cosentino e della Riviera romagnola. Ma sono state confiscate anche quote societarie e aziende che operano nel campo della gestione di stabilimenti balneari, dell’attività di costruzione, acquisto e vendita di beni immobili, dell’affitto e della gestione di servizi turistici, alberghi, residence, ristoranti, pizzerie.
La confisca dei beni ha come unico protagonista il quarantatreenne Agostino Briguori di Bonifati (Cosenza), considerato dagli inquirenti il referente per il clan Muto in Emilia Romagna. Un pezzo grosso, secondo chi indaga, anche se al momento si tratta soltanto di ipotesi.
Le indagini patrimoniali sono state disposte dal questore di Cosenza Alfredo Ansalone e hanno accertato che Briguori, verso cui è stata emessa un’ordinanza di custodia cautelare dal gip di Catanzaro, nell’ambito dell’operazione “Cartesio”, ha rappresentato la longa manus, insieme ad altri soggetti, del gruppo mafioso radicato nell’alto Tirreno cosentino.
Su Briguori pesano capi d’imputazione per reati di usura, estorsione e favoreggiamento aggravati. L’uomo apparteneva al sodalizio mafioso facente capo al noto Franco Muto, per conto del quale reimpiegava i proventi delle attività illecite in usura.
Sulla costa romagnola, in particolare, sono stati apposti i sigilli a un locale ad uso magazzino a Igea Marina e al ristorante “Perla verde” di Bellaria.
Paolo Giovagnoli, procuratore capo di Rimini, commentando l’operazione ancora in corso ha insistito sul fatto che “il meccanismo del sequestro funziona e ha funzionato anche per inchieste già chiuse da tempo con condanne. L’importante è arrivare prima che i beni vengano distratti, ceduti magari fittiziamente”. Giovagnoli ricorda una delle operazioni condotte nel 2007, in Romagna, su un clan calabrese in espansione verso nord, che aveva le mani in pasta nel gioco d’azzardo. Si trattava dell’associazione di stampo mafioso facente capo al riccionese Rino Masellis, condannato dalla Corte d’assise di Ravenna all’ergastolo. Rimini, l’anno dopo, condannò a 60 anni di reclusione, in primo grado, 11 dei 13 imputati coinvolti a vario titolo nel giro. “In quell’occasione -afferma Giovagnoli- ci fu il sequestro dei beni riconducibili a Masellis e trovammo anche un conto corrente da 1 milione di euro a San Marino”. “All’epoca –prosegue il procuratore- il Tribunale di San Marino ci mise un po’ di tempo a rispondere”. Questo ritardo comportò il prosciugamento del conto corrente sequestrato.
Oggi la ‘ndrangheta è tornata a far affari in riviera. Non al tavolo da gioco, ma espandendosi come le metastasi di un male incurabile, nel cuore del tessuto produttivo regionale. Protagonista: il Clan Muto di Cetraro, originario della provincia di Cosenza. La ‘ndrina dei Muto era finita di recente nel mirino degli inquirenti in un’operazione che ha investito le regioni Calabria, Lazio, Basilicata e Toscana. L’ultima indagine, che ha visto il clan spingersi a nord fino in Emilia Romagna, fa seguito al sequestro dei primi di marzo scorso, operato nel corso dell’operazione “Hummer”. Grazie al lavoro di circa 200 finanzieri, impegnati su tutto il territorio nazionale, si è arrivati al sequestro di ingenti patrimoni ritenuti riconducibili a esponenti dei Muto. I soggetti finiti nella ragnatela del nucleo di polizia tributaria di Roma, in un’operazione coordinata dalla direzione distrettuale antimafia capitolina, nelle persone del procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo e del sostituto procuratore Maria Cristina Palaia, pare abbiamo investito per conto del clan Muto ingenti capitali, al fine di acquisire beni mobili, immobili e partecipazioni societarie, costituendo numerose società, quasi tutte con sede a Roma, intestate a familiari o a prestanomi.
trato da Il Fatto Quotidiano
Bel colpo!! Comunque questo ci serva per aprire gli occhi anche a noi cittadini del Nord del Paese, che la criminalità organizzata qui c’è ed è ben viva e vegeta.
Pertanto occorre che ognuno di noi si impegni nel suo piccolo e non giri la testa da un’altra parte.