Pino Masciari sarà protagonistra ad Erba (CO) domani, domenica 10 aprile, di un incontro pubblico organizzato dai giovani di Azione Cattolica della zona di Lecco che vivono l’esperienza di FormAzione. L\’incontro si svolgerà alle ore 17.00, presso il Teatro Excelsior, via Diaz n. 5.
Riportiamo di seguito l\’intervista di Martino Incarbone, comparsa il 3 aprile, sull\’inserto domenicale di Avvenire Milano7, in occasione dell\’evento che si svolgerà domani ad Erba (CO) e il relativo manifesto.
Giuseppe Masciari, 52 anni, nato a Catanzaro è un imprenditore che si è ribellato alla mafia e ha pagato di persona questa sua scelta. Sarà protagonistra ad Erba, domenica 10 aprile, di un incontro pubblico organizzato dai giovani di Azione Cattolica della zona di Lecco che vivono l’esperienza di FormAzione. Pino, come lo chiamava suo padre, viene da una famiglia benestante e numerosa, 9 figli, con un padre che lavorava nel settore dell’edilizia privata. Nel settembre 2004 è costretto a chiudere l’impresa e a licenziare tutti i dipendenti per aver avuto il coraggio di denunciare la mafia che esigeva soldi dalla sua impresa. Da quel momento la sua vita è cambiata, fino a portarlo alla fuga forzata dalla Calabria, il 17 ottobre 1997. Ora vive sotto scorta insieme con sua moglie, che definisce una grandissima donna. Lui e tutte le persone che sono state al suo fianco hanno pagato un prezzo altissimo per difendere la loro libertà.
Come mai a 24 anni la scelta rischiosa di fare l’imprenditore?
Vengo da famiglia di imprenditori, mi piaceva, amavo costruire e realizzare opere. Era il mio sogno sin da piccolo. Ho studiato a Napoli
alla facoltà di ingegneria, fino a quando, per la malattia di mio padre sono rientrato in Calabria per portare avanti l’azienda di famiglia. Mio padre lavorava nell’edilizia privata, invece io mi sono buttato nel mondo degli appalti pubblici. L’errore più grande della mia vita. Non conoscevo che cosa potesse essere la burocrazia e l’amministrazione pubblica.
Ad un certo punto la sua vita è cambiata… quando è venuto in contatto la prima volta con la criminalità organizzata?
Il contatto è stato sin da subito. Vengono e ti chiedono delle cortesie. Chiedono di far lavorare piccoli artigiani. Quando cresci poi ti osservano, cercano di capire quanto puoi valere e ad un certo punto ti dicono: tu per continuare a lavorare devi pagare il 3%. Fanno una richiesta chiara e precisa. Ma non erano le uniche richieste: mentre i malavitosi mi facevano gli attentati la politica pretendeva il 6% perché le fatture fossero regolarmente pagate. Le richieste avvenivano in maniera chiara, perché loro sono il vero stato, parallelo allo Stato della Costituzione. Con la differenza che le leggi mafiose non hanno condoni e indulti, loro rendono esecutiva la condanna in un attimo. Però io ho detto: non vi do nulla e vi denuncio.
Da lì è iniziata la sua lotta. Che risposta ha trovato?
C’era una situazione nazionale di instabilità, tangentopoli, le stragi di mafia. La classe dirigente aveva altro da pensare, era l’epoca del “si salvi chi può”. Era una cosa naturale pagare per ottenere le cose, io mi sono opposto a questa situazione. L’imprenditore Pino Masciari cerca lo stato, le istituzioni ma non trova risposta. Mi prendevano per pazzo, ma che vuole fare questo, vuole cambiare le regole? Ma che si è messo in testa. Era difficile trovare un interlocutore credibile. Anche le istituzioni sono vittime di infiltrazioni. C’era il rischio che ancora prima della denuncia venivi fatto fuori.
Perché ha deciso di denunciare l’illegalità? Non ha pensato alle possibili conseguenze devastanti per la sua vita?
La prima cosa che ho pensato è quella di voler essere un imprenditore libero in un paese libero e democratico come il nostro. Tutto qui. Osservare le leggi dello Stato e la Costituzione. Ho denunciato con con naturalezza, non perché ero preso dal panico. Era un mio diritto e chiedevo il rispetto delle leggi. Mi dicevano, ma guardi che lei rischia la vita… Infatti nel settembre 1994 decisi di licenziare i dipendenti e di non lavorare più. Non c’era alternativa: per non piegarmi alle mafie ho deciso di fermare le mie aziende. Nel 1997 le autorità hanno valutato che ero in pericolo di vita e ho dovuto scappare, ho dovuto affidare la mia vita e quella di mia moglie allo stato. Allora è iniziata la mia seconda vita, per 13 anni sono diventato nessuno. La vita non era più mia, spesso mi vergognavo di me stesso, non potevo dire chi ero. E questo ha coinvolto anche mia moglie e i miei figli Francesco e Ottavia. Invece a mia mamma e ai miei fratelli non ho potuto dire nulla.
Oggi un imprenditore può denunciare la mafia?
Quando ho denunciato non c’erano leggi a difesa degli imprenditori. Oggi e allora ci sono imprenditori che danno la vita altri che ci marciano. Quando si denuncia il sistema mafioso bisogna fare nomi e cognomi, non si denuncia solo il danno all’economia. Siamo molto lontani dallo sconfiggere le mafie perché molti imprenditori non denunciano. L’Italia è un paese di impuniti, dove la corruzione e l’evasione fiscale la fanno da padrone. Oggi le leggi ci sono, c’è la 44 del 2009, la legge sui testimoni di giustizia: se l’imprenditore non denuncia è perché ha la convenienza. Sono le mafie che devono andare via, se tutti dovessimo denunciare, non sono i commercianti devono chiudere. E non è un problema del sud: gli imprenditori del nord, prima di andare ad appaltare i lavori giù in Calabria che fanno? Chiedono: è mutata la percentuale o è rimasta la stessa? Sono ben coscienti che vanno lì e devono pagare. Come per la Salerno – Reggio Calabria, da 300 miliardi sono arrivati a 900 miliardi, capisce, questa lievitazione di prezzi forse è un lucro per gli imprenditori.
Lei ha scritto un libro che si intitola “Organizzare il coraggio”. Perché?
Il 28 luglio 2004 il ministrero mi scrive che né io né la mia famiglia possiamo fare ritorno in calabria. Dopo 3 mesi finisce il programma di protezione. Ho dovuto anzitutto impugnare la decisione e il tribunale amministrativo mi ha dato ragione. Ma poi ho dovuto uscire allo scoperto, mostrando il viso in pubblico raccontando la mia vita. Ho incontrato persone molto diponibili, anche Don Luigi Ciotti, quelli che ora si chiamano “Gli amici di Pino Masciari” (www.pinomasciari.org). Si sono schierati al mio fianco nei momenti più bui della mia vita, accompagnandomi anche nei processi. Ecco loro mi hanno detto: devi scrivere il libro perché non tu ma l’Italia ne ha bisogno. E allora mi è venuta l’idea, se le mafie si organizzano, tutti si organizzano per fare qualcosa, perché non ci organizziamo anche noi a sconfiggere questa cultura mafiosa?
Lei è definito dalla legge testimone di giustizia. Testimone è una parola nobile. Il testimone comunica non con le parole ma con l’esempio. Che cosa significa essere testimone?
Significa portare un messaggio di speranza: non tutto è perduto. Ognuno è chiamato a fare la sua parte, noi siamo lo stato, noi rappresentiamo quello stato e noi dobbiamo credere nelle istituzioni. Io porto ogni giorno nelle scuole il mio messaggio: i giovani sono la nostra speranza. Il nostro presente. Senza di loro uno stato non ha vita. Siamo lontani da un vero risveglio ma ci sono delle fiammelle accese in tutta Italia, Ma dobbiamo fare ancora molto. La Chiesa stessa non può essere timida nel condannare le mafie. Lo fa già, ma ci deve mettere ancora più forza.
Lei è credente?
Si, questo mi ha aiutato molto, a me e mia moglie. E’ come se avessi il mio angelo che mi guida. Lo dico con franchezza, senza la fede io e mia moglie non saremmo qui a parlare. Abbiamo avuto dei momenti bui. Momenti di abbandono totale. Sono arrivato al punto di maledire mia mamma e mio papà che mi hanno messo al mondo.
Che cosa significano per lei legalità e coraggio?
Legalità significa rispetto delle regole. La mia libertà inizia dove finisce quella dell’altro. Non si può fare quello che si vuole. Senza legalità e giustizia un paese non può essere veramente democratico. Il coraggio invece viene quando sai di essere dalla parte del giusto. E’ quella forza che sai essere nascosta dentro di te e che sgorga spontanea.
Domenica prossima ad Erba incontrerà i giovani di Azione Cattolica che cercano di vivere la vita quotidiana in coerenza con la propria fede: che messaggio lancerà a loro?
Devono avere fiducia in sé stessi, nelle istituzioni, avere fiducia nello Stato. Ognuno è chiamato a fare la propria parte, non aspettare che la faccia prima l’altro. Io l’ho fatta e adesso spetta a voi. I giovani non hanno passato: non hanno nulla da rimproverarsi; il presente lo vivono, ma il futuro lo devono costruire. Direi anche che devono aiutare noi adulti a fare una rivoluzione culturale per la legalità e per la democrazia.