Suo marito denunciò la \’ndrangheta. Sono fuggiti dalla Calabria. Ora Marisa Masciari svela il suo volto
«Come mi trova? Ho preso qualche chilo». È bella, Marisa. Distante dalla figura prosciugata incontrata due anni fa in un bar di un luogo da tenere segreto, e anche il suo volto non si doveva svelare. L\’abbiamo accompagnata quasi fino a casa, in treno, perché aveva tanto altro da dirci ma in realtà non voleva viaggiare sola. Anche oggi non si può scrivere dove abiti Marisa Masciari. «Tanto so» sorride lei «che chi vuole trovarci lo farà comunque». Marisa è una donna che ha vissuto tre volte. Le prime due, Io donna le ha raccontate nel 2008. Ora la terza riparte da un libro, Organizzare il coraggio (Add editore), scritto con il marito Pino per ripercorrere la loro storia e quello che chiamano «l\’inizio». Che va in scena in una villa a due piani con giardino, il televisore ancora nel cellophan, il sole che ferisce attraverso le finestre senza tende. «Non le ho messe di proposito. Voglio guardare fuori». Nella sua prima vita, 13 anni fa, Marisa era dentista a Serra San Bruno, nel Vibonese. Moglie di un imprenditore edile che gestiva appalti miliardari. Case al mare e in montagna. Amici, rispetto. E la scure della \’ndrangheta sopra la testa. Il marito, Pino Masciari, si ribella e denuncia, fa condannare 41 affiliati alle \’ndrine più sanguinarie di 4 province e un magistrato. Diventa testimone di giustizia, \”uomo morto che cammina\” si dice dalle sue parti: il 17 ottobre 1997 fuggono all\’improvviso con i due figli piccoli, nascondendosi in tre città diverse. Fantasmi, annullati e logorati da un rapporto difficile con lo Stato che deve proteggerli: scorte che non arrivano, o che per sbaglio lasciano piccoli segnali pericolosi in terra di \’ndrangheta.
La seconda vita di Marisa sa di rabbia e bulimia, mentre Pino si espone e coinvolge tante associazioni nella sua battaglia di legalità. L\’avevamo lasciata là, Marisa, in attesa di una sentenza che sancisse il loro diritto alla sicurezza, perché chi sfida il patto criminale più potente al mondo non è mai fuori pericolo. La sentenza è arrivata, e il 25 aprile Pino e Marisa sono usciti dal programma di protezione: significa che possono ricostruirsi un\’esistenza con le loro identità, riprendere a lavorare, mantenendo (grazie alla sentenza, che è un caso unico e farà giurisprudenza) la scorta e un\’attenzione particolare dello Stato.
«Non è una favola a lieto fine» chiarisce lei servendo il caffè. «La paura non mi abbandona e la libertà non me la restituirà nessuno. Hanno messo una bomba nell\’ufficio di Pino in Calabria, come a dire che là non dobbiamo farci vedere. Una notte siamo stati sorpresi da due sconosciuti in camera da letto, che si sono dileguati senza rubare nulla: possono entrare in casa nostra quando vogliono». E come si riprende in mano la vita dopo un lungo limbo? «Aprendo gli scatoloni» ride lei. «Erano rimasti chiusi, come a congelare la mia precarietà. Ho riposto le foto di famiglia nelle cornici d\’argento. E ho letto un libro: prima scorrevo solo carte burocratiche, la mia testa era immersa in quel mondo irreale. Sognavamo che lo Stato ci proteggesse nella nostra terra: sarebbe stato un segnale forte per la \’ndrangheta». In tutta Italia Pino è invitato a raccontare il suo coraggio; a Serra San Bruno si voltano dall\’altra parte. Là non è un eroe: è un infame, Marisa con lui. Le famiglie si fanno sentire raramente. «Ma non rimpiango nulla, se non la giovinezza perduta, la mia spensieratezza. Volevo fare carriera come dentista: sono fuggita a 31 anni, oggi ne ho 44 anni e i sogni si sono infranti».
L\’inizio è il volontariato in una struttura sanitaria per persone disagiate, dove Marisa riprende la sua professione. È la cena fuori, il cinema, «ma quasi mi prende il panico, dopo la lunga cattività». Sono i due figli ormai al liceo: «Devono sapere che mamma e papà non sono sempre stati scuri e rabbiosi». È la riconciliazione con lo Stato che pareva averli traditi. «Quando siamo entrati nel programma, non c\’era una legge sui testimoni di giustizia. Eravamo come i pentiti, mentre il testimone non è coinvolto nell\’organizzazione che denuncia». La legge è arrivata nel 2001. «Siamo stati cavie di un sistema che oggi funziona meglio. E dovrebbe incoraggiare molti, al Sud, a ribellarsi al pizzo. Il nostro libro vuole spiegare che si può essere coraggiosi senza essere eroi. Ma ora che ogni oggetto è al suo posto, in questa che posso dire casa mia, anch’io sono al mio posto. Ed è solo l’inizio».