Le rivelazioni di “Max il lavandaio” amico dei boss di piazza Sabotino
«Il succo di limone diventa sangue e il cibo si tramuta in piombo se si tradisce», dicevano alzando i calici al cielo, nello scantinato del ristorante Babylon, a due passi dal commissariato della polizia di fronte alle Porte Palatine. Lì, nella penombra di una cella frigorifera, nei primi giorni di settembre 2015, i nuovi adepti del clan Crea, una delle famiglie di ’ndrangheta più attive a Torino nel campo delle estorsioni, droga, armi, gioco d’azzardo, giuravano fedeltà all’organizzazione criminale.
Ma la storia insegna che i giuramenti, in fondo, finiscono quasi sempre per essere violati. Così ha fatto Massimiliano Ungaro, titolare del ristorante e gestore della lavanderia alle spalle della Gran Madre, il cui nome in passato è stato lambito dalle ombre di altre vicende giudiziarie: dopo aver respirato per qualche mese l’aria di una cella, ha deciso di tradire «la famiglia» e collaborare con la giustizia. In sette interrogatori, da maggio a luglio scorso, di fronte al pm Paolo Toso, ha svelato i retroscena di affiliazioni, affari criminali, traffici di armi riconducibili al clan dei Crea, guidato dai fratelli Aldo Cosimo e Adolfo: due «padrini», secondo gli atti di altre inchieste giudiziarie. All’inizio dell’anno, Ungaro, i Crea e altri affiliati erano stati arrestati dai carabinieri del nucleo investigativo al termine di una lunga indagine, sviluppata attorno al Gran Bar di piazza Sabotino, luogo di ritrovo di boss e vittime, crocevia di pizzini e minacce. La ’ndrangheta sotto casa, si era detto allora, tentacolare nel cuore di Torino, a poche fermate di tram dal tribunale.
Ungaro, di sé, dice di essere stato prima una vittima, per via dei debiti, e poi di essersi lasciato trascinare nel vortici della ’ndrangheta, fino a diventare un «associato», sebbene in tempi recenti: ingresso nel 2014 e passaggio di «grado» nel 2015, suggellato nello scantinato del ristorante, dove l’ex titolare del locale, suo amico, Massimiliano Citiulo, si era tolto la vita nell’estate di 5 anni fa, perseguitato – si ipotizzò all’epoca – da debiti e strozzini. Grazie alle recenti dichiarazioni di Ungaro, gli investigatori del maggiore Andrea Caputo e del capitano Vincenzo Bertè hanno scritto un nuovo capitolo dell’inchiesta sui Crea, notificando nei giorni scorsi 4 ordini di custodia cautelare, di cui due in carcere. Tre sono ritenuti «partecipi», perché presenti alle affiliazioni e accusati di essere coinvolti in vari episodi criminali: Damiano La Rosa, 55 anni, residente a Beinasco, Nicodemo Tropea, 38 di Siderno, e Antonio Serratore, 42, originario di Vibo Valenzia, ritenuto «collegato alla famiglia ndranghetista dei «Bonavota», con interessi diffusi nella zona di Carmagnola. Il quarto è un giovane intraprendente, Cristian Rotundo, 26 anni, che dopo aver trovato delle armi in un garage durante un furto, tra cui un Kalashnikov, le rivende ai Crea. Una parte di queste armi sono state spedite in Calabria dentro un divano, simulando un trasloco.