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Oggi ricorre il 72° anniversario della morte del Vice Brigadiere Salvo D’Acquisto. Qualche anno fa, iniziando dal Capo dello Stato, tutti si recavano in pellegrinaggio alla Torre di Palidoro a rendere omaggio all’Eroe più fulgido della Resistenza italiana.

Oggi il suo monumento è pieno di sterpaglie. Alcuni vertici dell’Arma lo hanno accantonato, perché nel frattempo qualche autorità si era stancata di quel giovane ragazzo che dall’alto del suo eroico gesto li faceva apparire quello che sono: dei nanerottoli.

Quando si perdono i valori di riferimento, ci si sente perduti. Di fronte a taluni comportamenti, spregiudicati, arroganti e violenti, si rimane frastornati e disorientati. Si è tentati talvolta di pensare se vale la pena di lottare perché l’onestà, la lealtà e la fedeltà si impongano nella vita di tutti i giorni.

Qualche anno or sono un alto prelato della Chiesa Cattolica mi chiamò in Vaticano e mi invitò a comporre un’opera per postulare la Beatificazione del Vice Brigadiere dei Carabinieri Salvo D’Acquisto, Medaglia d’Oro al Valor militare. Un po’ come accadeva nei secoli XVIII e XIX, quando la musica sacra svolgeva un ruolo sociale.

D’Acquisto aveva appena 23 anni, quando si immolò per salvare la vita di 22 ostaggi innocenti dalla furia nazista. Mi disse il Cardinale: “Quel bravo giovane attende da troppo tempo di essere innalzato agli onori degli altari. Il suo atto è paragonabile a quello dei martiri cristiani del I e II secolo dopo Cristo che preferivano sacrificare la vita piuttosto che abiurare la loro fede. La sua musica servirà per una nobile causa”.

Accettai perché quel gesto mi ha sempre stupefatto.

Perché? Tanti uomini hanno dato la vita per gli altri e per difendere le loro idee. Ma questo giovane ci colpisce in maniera particolare. Per quale motivo?

Perché, quando tutti fuggivano, compresi i più alti vertici dello Stato, Lui rimase al suo posto per servire e tutelare gli altri.

Perché, quando si fuggiva sui monti per combattere i nazisti, Lui volle rimanere vicino alla gente, perché talvolta è più difficile lottare contro il male mentre lo guardi in faccia ogni giorno, mattina e sera.

Perché, quando quei soldati tedeschi, che avevano dimenticato l’onore militare, gli chiesero di indicare un colpevole che non c’era, Lui non lo fece e disse che nessuno era colpevole.

Perché, quando i nazisti rastrellarono gli ostaggi e li raccolsero su un camion, Lui non fuggì, ma preferì restare e unirsi alle 22 vittime.

Perché, quando gli ripeterono di indicare il colpevole, mentre si trovava nella fossa con gli altri a scavare, Lui si rifiutò ancora una volta di fare qualsiasi nome. E lo poteva indicare, anche fra i 22 ostaggi. Sarebbe stato creduto. E si sarebbe salvato insieme ai rimanenti 21, che sarebbero sopravvissuti.

Perché, quando vide i volti distrutti di quei concittadini che lui sentiva di dover proteggere, Lui disse al sottufficiale teutonico che il colpevole era uno solo, lui stesso. Quel graduato, che non voleva assumersi alcuna responsabilità, gli rispose che si doveva attendere l’ufficiale.

Perché, quando sette ore dopo giunse l’ufficiale, Lui, nonostante il suo animo fosse martoriato e dilaniato, compresse la sua voglia di vivere.

Perché, quando l’ufficiale tedesco, saputo della sua autodenuncia, lo invitò a uscire dalla fossa e ad avvicinarsi, Lui ripeté con maggiore determinazione che era stato lui a compiere l’attentato.

Perché, quando l’ufficiale tedesco, lo invitò a tornare nella fossa a scavare, e si intrattenne con i suoi graduati per decidere sul da farsi, Lui non tornò sulla sua decisione.

Perché, quando gli altri, da lui salvati, andarono via e nemmeno si voltarono per vedere che cosa gli stava accadendo, Lui non si rattristò, ma guardò lontano verso quel mare che gli ricordava la sua terra.

Perché, quando lo fucilarono, Lui non disse una parola di disprezzo verso i suoi aguzzini, ma li guardò con la serenità e la consapevolezza del martire.

Perché, quando Lui era da ore esanime nella fossa senza che alcuno ricoprisse con un po’ di terra il suo corpo, un soldato tedesco alla sera confidò: “Il vostro Brigadiere è morto da eroe. Impassibile anche di fronte alla morte. Si è assunta intera la responsabilità del fatto per salvare la vita ai civili i quali non facevano altro che piangere ed imprecare”.

Lui, sempre Lui.

Drammaticamente presente nella scena della più grande tragedia italiana, vissuta in un piccolo borgo. Non in un grande campo di battaglia, dove risuonano trombe e tamburi. Non nelle cattedrali dalle colonne più elevate ed austere, dove echeggiano le note di organi maestosi. Non nei palazzi più sontuosi del potere, dove rimbombano i discorsi più roboanti.

Ma lì. In quella piccola contrada, dove alla sera, quando cala il sole, si ode tutt’al più il rintocco leggero di una campana.

Ebbene lì si è maturato il più grande esempio di altruismo e carità cristiana di un soldato, di un solo soldato, rimasto da solo con la sua coscienza e la sua dignità, che mise da parte il suo orgoglio di militare per vivere i suoi ultimi istanti di vita terrena con una umiltà che non esito a definire francescana.

Nel 2004 l’oratorio “Il soffio di Dio”, era compiuto e fu eseguito nella Basilica di Santa Chiara di Napoli, dove l’Eroe è sepolto. Sulla sua tomba ogni giorno vi sono fiori freschi, portati dalla pietà dei fedeli napoletani. Sofia Loren, madre che sa riconoscersi nei valori della sua gente, inviò una lettera che commosse il pubblico presente. Disse che Salvo D’Acquisto “con un gesto incomparabile, che solo i grandi sognatori e idealisti di Napoli sanno offrire, ha riscattato un mondo fatto di crudeltà e di guerre senza senso”.

Che cosa mi indusse, però, a comporre quell’opera? La calda esortazione del Cardinale o qualcos’altro? Mi ricordo che non raccolsi subito il suo invito. Ero troppo preso dalle tristi vicende che affliggono ogni giorno la nostra bella Italia.

Ma una sera, una di quelle dopo una giornata in cui l’amarezza ti chiude il cuore, fui spinto da una forza misteriosa nel mio studio.

Ero solo. Irrequieto. La malinconia mi pervadeva. Mi trovai senza volerlo davanti al pianoforte. Sul leggio un foglio di carta musicale, con il pentagramma maledettamente vuoto. Accanto la fotografia di Salvo D’Acquisto, messa lì da chissà quale entità.

Lo interrogai: “Chi sei? Che cosa vuoi da me? Perché mi hai mandato quel prete per cantare il tuo bel gesto?”. Rimase impassibile a guardarmi. Mi trovai come in un vicolo cieco. Senza aria.

Mi chiesi: “E adesso che faccio?”.

Quando pensavo di essere soverchiato dalla nullità creativa, vennero fuori le prime note: una minima, seguita da due semiminime e da un intero, che, in due battute, si susseguivano ripetutamente. Un clarinetto, prima, un flauto dopo, si alternavano in un ritmo sempre più incalzante. L’anima di quel giovane si stava esprimendo attraverso la mia mano che correva sul pentagramma.

Composi per tutta la notte. Alla fine preludio dell’opera era stato completato. Perché “Il soffio di Dio”? Perché come gli Apostoli nel giorno della Pentecoste avevano ricevuto l’alito di Dio, così Salvo D’Acquisto, al momento della sua decisione, era stato inondato di grazia e carità.

Me lo immaginai di fronte al plotone di esecuzione, prima della fucilazione. A cosa stava pensando – mi chiesi – quel giovane, mentre guardava il mare che si muoveva in lontananza? Alla patria? Alla madre? Al suo re, che era fuggito? Alla sua vita che stava fuggendo anch’essa?

No! Lui non poteva pensare alle cose di tutti i giorni. Il suo pensiero era altrove. Era volato a Napoli, nella sua bella Basilica di Santa Chiara, dove lui da giovinetto si recava a pregare. Sì, stava pregando Santa Chiara perché lo svegliasse da quel terribile incubo.

E non poteva che essere un incubo. Come possono gli uomini ammazzarsi così crudelmente per obbedire a principi e regole che lo rendono così inumano? Mi vennero in mente alcuni versi, in napoletano: “Santa Chiara, Santa Chiara, anema santa, famme turnà a casa mia, famme sunnà, famme scetà”. E questa invocazione si ripete ossessivamente, più penetrante delle pallottole che lo avrebbero poi colpito.

Ci sono stati poi gli spari, quelli veri. Lui non li ha uditi. Era ormai lontano, nella sua vera vita, in quel mondo che solo lui può raggiungere e ha raggiunto.

Ci arriveremo mai noi? Io, da umile musicista, come ebbi a dire al termine del concerto a Napoli, mi sono trovato a cantare la vita e il bel gesto di un gigante della storia patria.

Sul luogo della sua fucilazione oggi vi è una stele, che non si può visitare perché in una proprietà privata.

E’ lecito che la Patria non ricordi degnamente il suo atto eroico?

Il luogo dove Salvo ha subito il martirio è triste e desolato. Occorrerebbe realizzare un monumento dedicato al suo grande amore per gli altri. Un monumento che potrebbe essere voluto da tutti i Comuni d’Italia, come è avvenuto nel 1933 quando è stato costruito il monumento al Carabiniere a Torino.

Questo sacrario sono certo che diverrà meta di pellegrinaggi, di scolaresche, di tanti giovani, che vorranno riferirsi ai veri valori della vita, primo fra tutti il rispetto della dignità umana.

Vi chiedo di dedicare almeno un pensiero della vostra giornata a Salvo D’Acquisto. Parlate di Lui nei luoghi di lavoro, nelle scuole, nelle parrocchie, nelle vostre famiglie. Parlatene con i vostri figli. Perché sappiano che è bello vivere in un mondo in cui ci sono giovani che danno la vita per salvare gli altri. Che il male, la violenza, se si vuole, si possono fermare ed eliminare.

Pensate continuamente a Lui. Perché tutti i vostri pensieri divengano un grande fiume, che raccoglie l’acqua dai suoi affluenti per giungere forte e vigoroso in quel mare, dove tutte le nostre vite un giorno confluiranno.

Pensiamo e parliamo di Lui, di un ragazzo.

Sì, perché alla fine Salvo D’Acquisto era un ragazzo che voleva vivere come ognuno di noi. Che aveva sogni da realizzare e speranze da inseguire. Che alla fine ha messo da parte tutto il suo futuro, tutto il suo domani. Perché c’era qualcosa più importante della sua vita. C’era quella gente, sulla quale Lui ogni giorno vegliava discretamente e silenziosamente, senza vantarsi mai di quello che faceva.

Ora è quella gente, che il 23 settembre del 1943 lo guardò supplichevole per avere salva la vita, che oggi è il grande Popolo italiano, che chiede che Lui assurga a simbolo dell’Unità d’Italia.

Il Comune di Lampedusa, di cui ero Assessore, ha deliberato il 24 ottobre 2009 una proposta di legge, che è stata inviata al Capo dello Stato, al Presidente della Camera e al Presidente dell’ANCI perché sia presentata, discussa e sostenuta da tutti i Comuni d’Italia.

La proposta è stata archiviata, perché questi politici, oltre che ladri, parassiti e fannulloni, sono anche privi di ogni emozione.

Presenterò la proposta di legge nel Consiglio Direttivo di Federscudo, perché la faccia propria.

 Antonio Pappalardo

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