di Aldo Maturo (AgoraVox)
100 miliardi di euro che se vogliamo ragionare con la vecchia lira, utilizzando la calcolatrice del computer perché quella normale si imballa, si scrive 193.627.000.000.000 e si legge (credo) 193 mila miliardi e 627 mila milioni di lire. La cifra sarebbe “il fatturato annuo lordo della criminalità organizzata in Italia limitato solo alla droga, agli appalti pubblici, alle armi, alla prostituzione”. Il dato riguarda solo le quattro cupole storiche.
Se è così alla somma vanno aggiunte altre voci del “bilancio corrente” – quello della cronaca nera quotidiana – nonché gli utili delle altre organizzazioni dell’Est che ormai operano nel Paese. In termini percentuali non è un bilancio da poco se si pensa che secondo una recente ricerca il patrimonio complessivo della criminalità nel mondo era stimato intorno ai 1000 miliardi di dollari, cifra che ci rifiutiamo di convertire in lire perché più simile a uno scioglilingua. Una somma simile equivale al prodotto interno lordo di molti Stati e raggiunge o supera il budget di tante grandi multinazionali. Il profitto sul traffico di droga raggiunge una somma tra i 300 e i 500 miliardi e secondo Le Monde rappresenta l’8% del commercio mondiale. Il fatturato della prostituzione solo in Italia è pari a quello del tessile e dell’abbigliamento. Un discorso a parte da qualche anno merita l’industria del commercio di organi, che richiede specialisti nel prelievo e nei trapianti, ospedali altamente specializzati, tecnologia d’avanguardia, aerei, banche in grado di ricevere capitali senza fare molte domande. Alla Borsa mondiale clandestina un rene costa 3000 dollari, un fegato 8000, un cuore fino a 20.000.
Con questi bilanci al crimine organizzato nel suo complesso può essere aggiudicato il primato di maggiore industria del pianeta: al primo posto nel redditometro mondiale della criminalità vi è il traffico degli stupefacenti e quello delle armi. Droga, armi e terrorismo si sono saldati in una miscela che non può che preoccupare tutti. Se a questo uniamo il contrabbando di materiali nucleari, la gestione di contrabbando dei rifiuti tossici e il traffico degli essere umani “esportati” dal terzo mondo verso il ricco Occidente – e nel nostro Sud ne sanno qualcosa – ci renderemo conto che ci troviamo di fronte ad holding transnazionali con una tecnologia e una strategia aziendale libera da vincoli normativi e con il vantaggio di poter utilizzare, per il raggiungimento dei propri fini, le più moderne tecniche di telecomunicazioni ed un’elevata professionalità, componenti queste favorite dalla liberalizzazione del commercio e dalla caduta delle frontiere. Ove non bastasse resta sempre l’uso della violenza e della corruzione.
A questi livelli evidentemente non è più un problema solo di casa nostra, una folcloristica guerra tra guardie e ladri. Una simile sfida non può essere limitata all’impegno di un singolo Stato ed è seguita infatti da tutti gli organismi internazionali deputati alla sicurezza ed al controllo della criminalità. E non è neppure una sfida impari. Gli onesti non fanno la parte dell’elefante ed i criminali non sono un topolino destinato ad essere schiacciato in ogni momento o solo che l’elefante voglia. Anzi, il rischio è che si possano invertire questi ruoli e la potenzialità economica che fa capo a questi centri di potere impone la massima attenzione. Questo non significa che tutti i gruppi criminali organizzati operano su scala mondiale ma è indubbio che esistono rapporti sempre più stretti e frequenti tra i traffici e le attività criminose di un Paese e quelli di altri, con i gruppi emergenti che tentano di sottrarre sempre più spazi liberi a quelli storici. Se l’internazionalizzazione delle imprese è frutto della globalizzazione della rete commerciale e finanziaria a tale modello non potevano non ispirarsi le imprese criminali che perseguono profitti illegali.
Il rischio ulteriore da non sottovalutare è il tentativo occulto di anestetizzare il problema in maniera che se ne parli il meno possibile. Si opera con manovre occulte non solo per motivi strategici ma anche per far sì che il fenomeno resti di esclusiva competenza delle istituzioni e delle forze dell’ordine, impermeabilizzando la gente che ignora o si impone di ignorare il problema. In questa logica dei grandi numeri non è detto che si debba restare solo a guardare e non si possa svolgere il nostro piccolo ruolo aderendo ad una cultura della legalità vissuta giorno per giorno che si contrapponga ad una illegalità diffusa, elevata spesso a sistema di vita. Pensiamo ai nostri “innocenti” peccatucci quotidiani che sono rappresentativi di una illegalità talmente radicata da essere considerata legale: gli abitudinari acquisti sottobanco che determinano l’alimentazione diffusa del contrabbando, il ricorso continuo ed istituzionalizzato al “favore” per ricevere indebiti vantaggi o accelerare la soddisfazione di un interesse, la stipula di affari non sempre trasparenti, il rito quinquennale del voto di scambio, l’adesione alla filosofia delle tre scimmiette (non vedo, non sento, non parlo, non c’ero e se c’ero dormivo). Chiediamoci qualche volta se anche alcuni di questi gesti quotidiani, che ci appaiono innocui, non rappresentano invece il fertilizzante naturale per il terreno di coltura su cui possono nascere e crescere piccoli o grandi comportamenti criminosi.