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Fonte: il Giornale – No, c\’è qualcosa che non quadra. E che, soprattutto, è profondamente ingiusta. L\’imprenditore (parliamo di piccoli e medi artigiani) esegue il lavoro che gli è stato ordinato, ma il committente – al momento di saldare il conto – prende tempo, «traccheggia»: insomma, non mette mano al portafoglio.

 Lo Stato chiede però all\’imprenditore il versamento immediato dell\’Iva (21%) sulle fatture emesse, ma in realtà mai incassate dall\’artigiano.
Attenzione: spesso il «mal pagatore» è proprio lo Stato, che poi pretende il versamento dell\’Iva dallo stesso imprenditore al quale si è «dimenticato» versare il dovuto. La domanda sorge spontanea: può uno Stato inadempiente usare il pugno di ferro con le vittime della sua stessa inadempienza? I 4 imprenditori che dall\’inizio dell\’anno si sono suicidati arrovellandosi sull\’interrogativo, la risposta l\’hanno trovata stringendosi un cappio al collo. Un epilogo drammatico, assurdo, che deve farci riflettere. E a riflettere – oltre ai politici – dovrebbe essere anche un sistema bancario che, a volte, giganteggia solo per la sua ottusità. Nelle tragedie dei 4 artigiani che si sono tolti la vita, c\’è infatti un tratto comune: una banca che ha negato un prestito micragnoso, che si è rifiutata di rinnovare un piccolo mutuo, che si è opposta alla proroga una rata di poche centinaia di euro. Nei 4 casi, finiti tra le brevi di cronaca, tutto ruotava attorno a somme ridicole che però, agli occhi di questi sfortunati imprenditori, si sono trasformate in macigni enormi che, alla fine, li hanno schiacciati. Com\’è accaduto, dall\’inizio del 2012, a Ivano Polita, 60 anni, di Noventa di Piave; Giovanni Schiavo, 52 anni, di Padova; Roberto Manganaro, 47 anni, di Catania; Paolo Trivellin, 45 anni, di Vicenza: tutte persone per bene, esattamente come gli altri loro colleghi che, negli anni scorsi, li hanno preceduti sulla strada della disperazione. Per aiutare a evitare che simili vergogne possano ripetersi (negli ultimi due anni sono stati 30 i titolari di aziende a conduzione familiare che si sono ammazzati) è nato il progetto Terraferma: una rete di assistenza psicologica che – partendo da una semplice telefonata di «conforto» – aiuta l\’imprenditore in difficoltà a non perdere la propria autostima. Dall\’altra parte del filo l\’imprenditore che vacilla sotto i colpi della crisi troverà una quindicina di professionisti, pronti a farlo uscire dal tunnel della «vergogna» (la vergogna di non poter pagare di dipendenti, la vergogna di non saper più guardare negli occhi moglie e figli), pronti a fargli esorcizzare quella parola angosciante: «fallimento». L\’iniziativa parte da Varese grazie a Massimo Mazzucchelli, un imprenditore che queste bruciature dell\’anima le ha patite personalmente. La sua idea si è poi sviluppata nelle regioni del Nord Est (area che ha registrato la maggioranza dei suicidi), ma l\’obiettivo è quello di coprire anche le zone del centro e del sud. «Riceviamo tantissime telefonate – racconta uno degli psicologi che ha offerto la propria adesione al progetto Terraferma -. C\’è chi piange, chi protesta, chi si dispera. Ma tutti hanno la necessità di sfogarsi. Per calmarli basta a volte semplicemente starli ad ascoltare. Ma ci sono anche casi più gravi, dove una telefonata non basta. Bisogna vedersi di persona. E noi siamo sempre disposti a farlo». Dallo screenig delle chiamate, emerge un identikit di imprenditore a «rischio-suicidio» che soffre per una serie di luoghi comuni: si comincia con l\’assioma «imprenditore uguale ricco» e si finisce col parallelismo «imprenditore uguale evasore fiscale». Certo, nella fascia alta degli imprenditori esistono persone che fanno un sacco di soldi e non pagano le tasse; ma, nel caso del piccolo e medio artigiano che si ammazza per i debiti (ma – come abbiamo visto – anche per i crediti che non ha potuto incassare) ci troviamo dinanzi a una tipologia diversa: questa – per lo più – è gente che ha un rapporto con i propri dipendenti (mediamente meno di 10) quasi da pater familias; una sorta di capo dal volto umano che non licenzierebbe mai uno dei «suoi» dipendenti.
Perchè, quei «ragazzi», sono anche la sua forza, il suo futuro. Altro che welfare e ammortizzatori sociali: nelle aziende a conduzione familiare tutto si «ammortizza socialmente» e «welfarizza» in un gioco di squadra.
Ma, quando lo Stato e le banche ti mettono con le spalle al muro, ecco che cominciano i guai. Ti guardi allo specchio e non ti riconosci più. Allora decidi farla finita. Per sempre.

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