De Magistris, Saladino, Pittelli, Chiaravallotti, Santoro, Di Pietro, Travaglio, Masciari e \”La Voce di Fiore\”: il ritorno di Verga, vincitori e vinti nell\’Italia calabrese.
Giovedì scorso, il 18 dicembre a.D. 2008, Michele Santoro ha dedicato una puntata della sua Annozero alla vicenda delle inchieste sottratte a De Magistris, Poseidone e Why not. La terza sul magistrato più scomodo d’Italia, in un anno.
Come sapete, queste inchieste sono state trasformate in un mistero buffo e assieme tragico. Buffo per i vari rapporti d’amicizia e lavoro che risultano dai fatti: il procuratore capo di Catanzaro è amico e assistito dell’avvocato sotto inchiesta. Questi, poi, non è membro della sezione sportiva del club dei goliardi. Sta, invece, in commissione parlamentare Giustizia ed è il riferimento del partito di Berlusconi in Calabria. Mistero tragico, invece, per il decesso della giustizia, andata per eutanasia nel silenzio generale; muta pure la Chiesa di Roma, che in materia interviene sempre.
Lo stesso giorno, l’imprenditore Pino Masciari, che ha denunciato ’ndranghetisti e collusi, ha avuto l’udienza al Tar del Lazio circa la revoca della sua scorta; che gli torna a intermittenza, pare senza una logica.
Decine le delibere degli organismi di sicurezza che, rincorrendosi, stabiliscono condizioni e possibilità di movimento del testimone di giustizia, il cui rischio rimane molto elevato.
Come prevedibile, niente scorta per l’udienza al Tar, Masciari è stato protetto dai suoi amici: giovani venuti da Torino, Udine, Trento, Roma.
Le alte sfere della politica non possono capirlo, e forse non vogliono che vada in giro a parlare di legalità e giustizia. Masciari è più pericoloso adesso che in passato: ha séguito, credito, consenso e argomenti. Aggrega, organizza, interviene, parla, s’incazza. A noi sembra che qualcuno voglia farlo passare per matto. Lo stesso ci viene da pensare per Giuseppina Cordopatri, che è fissa in tribunale, e altri testimoni di giustizia.
Ai piani alti del «palazzo» la scorta c’è, per quanto non serva.
I santisti della ’ndrangheta, così si chiamano i capoccioni dell’organizzazione internazionale made in Calabria, non deciderebbero mai l’uccisione d’un gubernator romano o locale.
Intanto per convenienza, visto che la politica dispone per legge e ciò può tornare sempre utile all’«onorata società», perseguitata dai vari Gratteri e Bruni, giudici non ancora allontanati dalla Calabria.
In secondo luogo, c’è una ragione che si deduce da certi, pacifici rapporti fra \”Cosa nuova\” (la ’ndrangheta), e il potere politico.
Con l’italico garantismo, aspettiamo di vedere la pronuncia della Cassazione, prima di esprimerci in definitiva sui vari consiglieri della Calabria accusati d’aver ricevuto una mano dalla ’ndrangheta, magari in cambio d’un regalino o d’un piacere. In tempi di crisi e sofferenza, siano entrambi leciti.
Ricordiamo, quale esempio di pendenze sui rapporti fra mafie e politica, il caso del consigliere regionale calabrese Franco La Rupa, il caso del consigliere regionale calabrese Pasquale Tripodi, il caso del consigliere regionale calabrese Dioniso Gallo, già vicepresidente della commissione regionale Antimafia; difeso, nel processo \”Puma\”, dal parlamentare Giancarlo Pittelli, già indagato da De Magistris e già amico e difensore dell’ex capo della Procura di Catanzaro, Mariano Lombardi.
In diverso modo, La Rupa, Tripodi e Gallo avrebbero incrociato personaggi non appartenenti all’oratorio, a Emergency o a Missione 2000, associazione di volontari in Africa fondata da don Battista Cimino, sacerdote diocesano scampato a diversi attentati.
Ripetiamo, a evitare equivoci e sanzioni, nell’ordinamento italiano vige la presunzione di non colpevolezza sino all’ultimo grado di giudizio. Presunzione che non può impedirci una valutazione etica su quanto sta avvenendo in Calabria, dove i fondi europei sono spariti, la disoccupazione e l’emigrazione aumentano e la rassegnazione e il familismo hanno distrutto molte possibilità di aggregazione civile, di resistenza e reazione.
Torniamo a Santoro e ad Annozero. Il buon Michele, che conosce perfettamente il mezzo televisivo e sa gestirlo con impeccabile professionalità, ha invitato Giuseppe Cascini, segretario dell’Associazione nazionale magistrati, il deputato Niccolò Ghedini (Pdl), legale di Silvio Berlusconi, Massimo Giannini, vicedirettore di La Repubblica, Tonino Di Pietro e Carlo Vulpio, cronista del Corsera sollevato dall’incarico a Catanzaro. In collegamento video Vittorio Grevi, ordinario di Procedura penale nell’Università di Pavia.
Nel giornalismo serio, si prevede che si confrontino più voci, che s’ascoltino diverse campane, che ci siano, in breve, pari opportunità. Degli squilibri sarebbero riprovevoli e inficerebbero l’imparzialità che si conviene alla stampa sana e democratica.
Parte la puntata di Annozero, e, dopo uno scontro fra Di Pietro e Ghedini sulle «guarentigie» costituzionali dei parlamentari, s’arriva al decreto di perquisizione della Procura di Salerno nei confronti della Procura di Catanzaro.
Immediatamente, si capisce, direbbe Pirandello, «il giuoco delle parti». Ghedini e Cascini rilevano a turno la mole cartacea del decreto e una mancanza di argomenti decisivi per l’individuzione di responsabilità e rapporti emersi nell’indagine di Salerno. Indagine che, come sapete, mira a stabilire, archiviata la posizione di De Magistris sul suo operato a Catanzaro, se in quel Palazzo di Giustizia ci siano state azioni di magistrati contrarie alla ricostruzione della verità.
Ghedini è l’avvocato di Berlusconi, vale ribadirlo, per dovere di cronaca.
Il discorso finisce sulla corposità del decreto di Salerno. Ghedini ce l’ha con le \”troppe\” pagine – 1.700, 1.500 o 1.400, a seconda che si consideri l’intero blocco o se ne levino delle parti introduttive – dell’atto salernitano.
Il roccioso Di Pietro replica al parlamentare del Pdl, che prosegue il suo ragionamento sul volume cartaceo del decreto di Salerno.
Con simpatia, Di Pietro si ferma sul contenuto dell’inchiesta salernitana, che, si sottolinea, intende stabilire se qualcuno ha inteso bloccare le inchieste Poseidone e Why not, rispettivamente sui depuratori calabresi e su un presunto comitato d’affari, attivo, nell’ipotesi dell’accusa, per rubare miliardi dell’Unione europea destinati allo sviluppo della Calabria.
Mentre Cascini – che, per non dimenticare, rappresenta tanti magistrati italiani – fa lezione ai colleghi di Salerno, precisando quali sono gli elementi essenziali da inserire in un decreto di perquisizione.
Così, prosegue la favola della battaglia tra le due procure, e scompare progressivamente l’oggetto della questione.
Per fortuna, c’è Marco Travaglio, il quale, con chiarezza e precisione, ricorda che cosa c’è di mezzo: corruzione in atti giudiziari, corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio, falsità ideologica e favoreggiamento personale.
Magistrati, imprenditori e politici sono toccati dall’inchiesta di Salerno, che ricostruisce una rete inimmaginabile di relazioni amicali o d’affari alla base di operazioni atte a impantanare Poseidone e Why not.
Leggendo le pagine di Salerno, viene voglia di rinunciare alla propria identità. Perché oggi essere italiani significa soggiacere a un potere oscuro che non si scova e che rovinerà chiunque vorrà individuarlo. Quali diritti, quale Costituzione, quale eguaglianza di fronte alla legge? E, soprattutto, chi fa e chi, in ultimo, interpreta la legge? Come? Con quale principio e fine?
Ovviamente, gli atti di Salerno non stabiliscono nulla di definitivo: la giustizia ha il suo iter, che va rispettato sino in fondo.
E se fosse vero lo scenario in quei documenti? La sola ipotesi avrebbe dovuto suggerire a Cascini un atteggiamento più prudente, a stima della gravità delle imputazioni, anche se non sono in sentenza.
Ma in Italia c’è un nuovo attacco alla magistratura, che deve necessariamente essere privata degli strumenti per assicurare i colpevoli alla giustizia. Vedremo come finirà con le intercettazioni e con l’insistenza della maggioranza su misure per i meri reati di mafia. La parola «mafia» serve a confondere l’opinione pubblica, e questo lo diciamo ormai in tutte le salse. La mafia è soltanto i Riina, i Provenzano, gli Schiavone e i Pelle, tanto per fare un esempio di misera convenzione?
L’Italia è per gli italiani un Paese di africani e romeni pericolosi, di città insicure o sozze, per cui il governo ha prontamente rimediato; televisivamente risolvendo, in realtà.
Il giudice palermitano Antonino Ingroia rammenta spesso la trattativa degli anni Novanta. Come Salvatore Borsellino, fratello di Paolo. Le stragi e i lutti di quell’epoca furono opera della mafia, punto e basta?
Leggete Colletti sporchi, di Ferruccio Pinotti e Luca Tescaroli. Ci sono, nel Belpaese, troppi capitoli aperti e casi irrisolti. Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi ebbero davvero un ruolo decisivo, in quegli anni di tritolo e morte dello Stato? Questa è solo una domanda, che speriamo sia ancora legittimo porre, in un Paese con una Costituzione.
E le indagini di De Magistris, lo chiediamo a Santoro, non hanno nell’inchiesta di Agostino Cordova a Palmi il precedente storico che illumina su probabili collegamenti tra poteri occulti e tipicità calabresi?
Che cosa è la Calabria? E’ solo il sangue sparso a Locri, a San Luca (Reggio Calabria), a Crotone, a Duisburg, o è terra di conquista e affari in cui l’assistenzialismo e le amicizie dei signori (massoni?) hanno ucciso lo sviluppo culturale ed economico, causando la nuova emigrazione dei giovani?
Roberto Saviano, vieni in soccorso di chi, come noi di \”la Voce di Fiore\”, non dorme più la notte e ha perduto perfino la capacità di sognare. Dici, scrivi, te lo stiamo chiedendo da tempo.
Quale orizzonte, quale futuro per i ragazzi della Calabria, se i soldi pubblici mancano, la società sparisce, la denuncia è vinta e la voce è spezzata, forse più di quella del \”rimosso\” Vulpio?
Noi, piccoli e inascoltati, nel libro \”La società sparente\” (Neftasia, Pesaro, 2007), che non deve esistere, abbiamo scritto che il tragico – per gli effetti – abbandono della Calabria è l’unica possibilità per chi non vuole sottomettersi alla Ndrangheta, che sarebbe la consorteria di politica, occulto e ’ndrangheta.
Quanti collegati ci sono in Calabria, in grado di tramare e gestire politicamente masse supine?
Che cosa ci ha insegnato Why not, se non che il sistema è marcio, incancrenito, la collusione è capillare e la corruzione legittimata?
L’inchiesta di De Magistris è solo un teorema? Esiste sul serio la guerra fra procure o l’inchiesta di Catanzaro su Salerno è una forzatura supportata dalla stampa, che ha concorso a costruire l’immagine d’una magistratura prepotente e inaffidabile?
Non era forse competente Salerno su Catanzaro, e non viceversa?
Il trasferimento di De Magistris non si può considerare l’ennesimo abbandono della Calabria, sia pure imposto, da parte di una coscienza che ha provato a cambiare le cose secondo la legge?
Noi calabresi dovremmo restare indifferenti, dovremmo vivere la nostra quotidianità nella consapevolezza dell’impotenza?
Quanto è diversa la vicenda di Why not da quella di Mani pulite?
Possiamo pensare che, per comodità politica, è proibita una lettura oggettiva del caso calabrese, che non riguarda semplicemente le «armate» del crotonese, della locride, del reggino e i traffici miliardari fra ’ndrangheta e cartelli colombiani?
Che cosa è questa Calabria, in cui tutto avviene al di fuori di ogni legge e giustizia umana?
Quale uomo onesto vorrà collaborare, osservando ciò che sta avvenendo a Pino Masciari, al quale denunciare la Ndrangheta è costato l’allontanamento e l’insicurezza perpetui?
Ripetiamo per l’ennesima volta, la Ndrangheta è altro dalla ’ndrangheta. Nessun professor Masciandaro, stimato economista, potrà valutare il fatturato della Ndrangheta.
Conta qualcosa questo nostro grido di rabbia e dolore?
Giuseppe Chiaravalloti, ex presidente della Regione Calabria, può essere responsabile della nostra privacy, in quanto vicepresidente dell’autorità di garanzia, dopo le cose ipotizzate in ordine alle inchieste, perdute, di De Magistris?
Circa Why not, tra i destinatari della recente conclusione indagini figurano diversi politici \”eccellenti\”: dal deputato Giovanni Dima, del Pdl, ex consigliere regionale calabrese di An, al presidente della Regione Calabria, Agazio Loiero. Quindi, l’ex presidente, Giuseppe Chiaravalloti; il capogruppo del Pd alla Regione ed ex vicepresidente della Giunta, Nicola Adamo; l’ex consigliere regionale dell’Udc Dioniso Gallo; il consigliere regionale di Forza Italia Giuseppe Gentile; gli assessori regionali Luigi Incarnato dello Sdi e Mario Pirillo del Pd. Le persone indagate a vario titolo dalla Procura generale di Catanzaro costituivano – secondo l’accusa – «uno stabile sistema clientelare»
Nessuno è colpevole finché non lo stabilisce la Cassazione. Per certo, corre una bella differenza fra la nostra nazione e altre, del nord europeo. Lì basta nulla, per un discorso etico, a spingere un uomo delle istituzioni a dimettersi. Ma questi signori coinvolti in Why not si ripresenteranno agli elettori, magari, come accade spesso, con un nuovo abito ed un altro linguaggio.
Noi di \”la Voce di Fiore\” stiamo morendo, ma ce ne andiamo con dignità. Probabilmente perché sono anzitutto i nostri concittadini calabresi a non volerci. Chiuderemo a fine mese, come annunciato.
Siamo vinti, e lo scandiamo con dignità. Abbiamo perso. Ma abbiamo ancora una piccola speranza. Finché c’è parola, c’è vita. Anche se la parola non deve mai essere isolata. Altrimenti, diventa follia.
22 dicembre 2008
I ragazzi della rete di \”la Voce di Fiore\”
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