di Maria Castellaneta IV A Liceo Classico di Gioia del Colle
Il racconto “ Mister” di Marco Lodoli narra la storia di un ragazzo che ha sempre odiato il calcio, fin da piccolo, quando suo padre lo aveva portato in uno stadio e gli aveva mostrato la sua faccia oscura, quella del tifoso che pensa solo alla vittoria della sua squadra. Il ragazzo narra la sua storia in prima persona e rievoca le sue esperienze e le sue sensazioni.
Il padre indirizzò il figlio verso il calcio iscrivendolo a una squadretta del quartiere e allenandolo per interi pomeriggi affinché diventasse il più bravo.
Egli per far felice il padre si impegnava e non si lamentava mai, anche quando il padre gli negava la scuola, gli amici, i giri in motorino, la libertà, il figlio era assoggettato al padre e non era in grado di liberarsene, a pensare di essere solo, come un cane, senza amici, senza nessuno che lo capisse.
La sua carriera era in ascesa e il padre era sempre presente, impegnato, fedele, ripeteva al figlio che era il suo orgoglio, la ragione della sua vita.
Il malessere nel ragazzo cresceva sempre più, così come i suoi successi. Il padre gli faceva firmare autografi, comprava con i soldi del figlio auto di lusso, una villa vicino il mare, tutto ciò che secondo lui serviva a un bravo e famoso calciatore. Il padre, il quale non si accorgeva del disagio del figlio e pensava solo al suo sogno, senza considerare e valutare minimamente quelli del figlio, che erano oscurati dalla sua visione gloriosa della vita del ragazzo.
Egli sapeva soltanto che suo figlio era il migliore, perché aveva talento, ma il ragazzo sapeva perché riusciva a segnare, era attirato dal vuoto, non era come gli altri che si ammassavano in un luogo, lui andava dove non c’ era nessuno e la palla gli arrivava.
Lo avevano soprannominato Fioretto perché non si arrabbiava mai ed era preciso, proprio così perché non riusciva ad avere amicizie, con quei ragazzi che si ammassavano su di lui quando segnava e che si affannavano a rincorrere la palla.
Un giorno però decide che era arrivato il momento della resa dei conti, in cui si sarebbe liberato da quel macigno , cioè il calcio che lo opprimeva . Che lo rendeva schiavo del suo successo, in cui suo padre sarebbe stato per una volta deluso, ma lui avrebbe ripreso in mano la sua vita.
Quel momento è l’ ultimo rigore della finale dei mondiali, in cui davanti agli occhi di milioni di persone decide di non fare goal ma di colpire la traversa.
Secondo me questo finale, un po’ triste , insegna il fatto che oltre alla tecnica, in ogni campo, serve anche la passione, la vocazione, il talento che è già dentro di noi dalla nascita e che poi si rivela nel tempo. Alla persona sta solo coltivarlo al meglio, non reprimerlo, né sfruttarlo.
I talenti sono doni naturali, sono passioni che non si inculcano nelle persone con la forza. Quindi il calciatore ha compiuto un’ azione giusta nei confronti di sé e, soprattutto, nel rispetto della sua personalità. È come nella musica, se non la si ama, se non se ne apprezza l’ essenza, anche se si sa tutta la teoria a memoria, non si trasmette niente.