di Sabrina Pisu – 25 ottobre 2013
Una panchina e il silenzio di una notte trascorsa nell’aeroporto di Lamezia Terme. Visti da qui, sono ancora più pesanti i venti anni passati dall’omicidio di Don Pino Puglisi, il padre dei ragazzi di Brancaccio ucciso dalla mafia. Visti da chi, quando aveva 25 anni, nel 1993, ha trovato il coraggio di testimoniare e far condannare i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano che avevano ucciso il prete della periferia palermitana che insegnava la legalità e la speranza. Solo l’uomo è caduto, il suo pensiero è stato salvato da Giuseppe Carini che da testimone di giustizia ha difeso e divulgato il suo insegnamento che diceva “le parole devono essere confermate dai fatti”.
Questo era venuto a fare anche ieri, era arrivato all’aeroporto di Lamezia Terme per partecipare a un evento pubblico nella provincia di Soverato, organizzato dalla diocesi, alla presenza anche del vescovo di Catanzaro Vincenzo Bertolone. Giuseppe Carini tornava ad essere se stesso, abbandonando per un giorno la sua nuova identità e la località segreta dove è costretto a vivere come un prigioniero in patria. Chiamato a raccontare la sua storia, aveva detto “sì”, come sempre, per incoraggiare altri cittadini a rinnegare la mafia, a mettersi dalla parte dello Stato, a non aver paura. Ma lo Stato per lui non c’è, e lui ha paura, così come tutti i testimoni di giustizia lasciati senza un’adeguata protezione. Ieri sera da quell’aeroporto non si è mai potuto spostare verso Soverato, perché la scorta non è arrivata, nonostante l’avesse richiesta e per tempo. È da qui che ha inizio una lunga, non nuova, cornetta della solitudine. La prefettura di Catanzaro doveva richiamarlo, ma non lo ha mai fatto. “Sono molto arrabbiato e mi sento inerme, non posso difendermi:” è la voce di Giuseppe Carini al di là del filo. “La lotta vera contro la mafia, non di facciata, si fa con la denuncia e vanno sostenuti gli onesti. Il sistema di protezione è al collasso totale, la vita dei testimoni di giustizia è un inferno, il nostro stato di salute psicofisica è irrimediabilmente compresso. Il Ministero dell’Interno conosce perfettamente le nostre condizioni disperate. C’è qualcuno che vuole farci pagare il nostro impegno civile, vogliono commemorarci da morti, è l’unica cosa che sanno fare.” Ieri sera ha vinto un’altra volta la mafia. Vince ogni volta che si perde la possibilità di incentivare la collaborazione dei cittadini: “Io questo voglio farlo perché non me lo fanno fare?”, si chiede Giuseppe Carini.
“È solo all’aeroporto, vi rendete conto di cosa significa questo? È esposto alla vendetta criminale, era un evento pubblico, tutti sanno che si trova lì”: è il grido di Ignazio Cutrò, presidente dell’associazione nazionale ‘Testimoni di giustizia’. C’è solo lui questa sera a raccogliere e denunciare la solitudine e la rabbia di Giuseppe Carini. “Se stasera gli succede qualcosa lo Stato è colpevole, è responsabile, la sua unica possibilità per non incorrere in pericoli è uscire dall’aeroporto a volto coperto, con il passamontagna.” Anche per lui, questa è un’altra sera di silenzio. “Ho cercato di mettermi in contatto con alcuni parlamentari, ma hanno spento il telefono. Litigano per spartirsi le poltrone, l’antimafia è un’altra cosa, dovrebbe mettersi al lavoro per salvare la vita di chi denuncia.” “Eppure,” confida poi Cutrò, “non ho paura della mafia, la cosa che mi fa più paura è il silenzio dei giusti, degli onesti, se ci abbandonano loro siano finiti.” E alle istituzioni dice: “Invece di farci continuare a vivere così, nell’inferno e nella solitudine, fucilateci tutti. Siamo ottanta testimoni. Fatelo, ponete fine alla nostra agonia.”
Nell’aeroporto di Lamezia Terme la notte scorsa non c’era solo Giuseppe Carini. C’erano tutti i testimoni di giustizia. E su quella panchina c’era tutta la loro quotidiana solitudine.
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