di Michele Lauro (su Panorama)
Una storia di coraggio e paura, dignità, trasparenza, legalità. Solitudine e amicizia. Una storia che si legge come un’avventura, se non fosse scandalosamente vera. Giuseppe Masciari, imprenditore calabrese, a metà degli anni Novanta decide di squarciare il velo omertoso tessuto dalla ‘ndrangheta nella sua terra. Diventa il principale testimone di giustizia italiano e poi, minacciato di morte, un innocente in fuga. Il suo racconto è ora un libro, scritto con la moglie Marisa: Organizzare il coraggio (Add Editore).
Inserito nel Programma speciale di protezione, Masciari è costretto a lasciare la Calabria. Di fatto, viene espropriato del lavoro (la sua impresa è “fatta fallire”) ed esiliato con la moglie e i due figli piccoli in squallidi appartamenti di periferia. Fra promesse, inganni e una girandola di spostamenti notturni che somigliano a deportazioni, per la famiglia Masciari comincia un incubo kafkiano: isolamento, depressione, deprivazione. Niente lavoro, niente contatti con l’esterno. Ma anche nessuna possibilità di rifarsi una vita, di dare un cognome ai propri figli, di andare a comprare il pane. Il resto sono le incongruenze del sistema di sicurezza e un atteggiamento ambiguo da parte delle istituzioni, che in più di una circostanza sembrano disincentivare l’imprenditore a parlare. Protezione o punizione? si chiede a un certo punto Masciari.
Il fatto è che la sua denuncia va a colpire un cancro la cui linfa è costituita da soldi e potere. La ‘ndrangheta è un sistema, e prima ancora una mentalità che prospera grazie all’assenza dello Stato imponendo il suo diritto, la sua “giustizia” tribale fatta di punizione e vendetta. E oggi la ‘ndrangheta appare forte come non mai, come dimostrano i recenti fatti di cronaca, le stragi per un pezzo di terra, lo sbarco al nord dove le ‘ndrine fanno affari con chiunque, come ha raccontato il pentito Di Bella in Metastasi di Gianluigi Nuzzi e Claudio Antonelli (Chiarelettere 2010). Ma già nel 2006 il magistrato Nicola Gratteri nel libro Fratelli di sangue, scritto con Antonio Nicaso, aveva denunciato con dovizia di particolari l’ascesa di questi uomini che tengono in pugno interi popoli assieme ai loro diritti più elementari. Quello che manca è innanzitutto la cultura della legalità. Qui, dove chi parla muore, lo Stato muore tutti i giorni di fronte alla prepotenza, alla minaccia, ai poteri occulti.
Pino Masciari non ha mancato un processo. Fianco a fianco con imputati dagli occhi di brace (altra “anomalia” del sistema giustizia), ha contribuito alla condanna di oltre quaranta mafiosi, denunciando il racket ma anche le collusioni della malavita con la politica e le istituzioni. Nonostante tutto, con determinazione pari alla precisione con cui ha circostanziato le sue denunce, è rimasto fedele allo Stato. O meglio a un’idea di Stato in cui sono i cittadini liberi a prendersi la responsabilità di scuotere le coscienze, informare, coltivare ed educare alla legalità. La risposta più sorprendente arriva dalle scuole, dove i ragazzi ascoltano emozionati la storia di Pino, scoprendo forse per la prima volta che “c’è più dignità in chi combatte la malavita che in chi la subisce”.
Perché se il coraggio uno non se lo può dare, insieme lo si può organizzare. Il coraggio di Pino e Marisa Masciari è la nobile qualità dell’eroe omerico, è l’applicazione dello slogan hemingwayano che nel 1929 Dorothy Parker fece conoscere al mondo: “Courage is grace under pressure”. Non semplice sinonimo di non aver paura (perché di paura i Masciari ne hanno avuta, e continuano ad averne, tanta), ma dignitosa, orgogliosa consapevolezza che ci sono cose più grandi e durature dalla paura stessa. Un coraggio che ha virtù di contagio. In maniera spontanea, grazie alla mobilitazione di alcune persone, la fiammella si propaga in rete raggiungendo i gangli più sensibili della società civile. È il capitolo più bello di questa incredibile vicenda. Non un lieto fine ma il possibile inizio – come tengono a dire gli autori – di una storia ancora da scrivere. Nel 2006 gli Amici di Pino Masciari cominciano a “fare rete”, organizzandosi tramite il sito, e in breve raccolgono migliaia di adesioni.
Le prime azioni pubbliche sono gesti pratici (”scortare” Pino colmando il vuoto lasciato dalle istituzioni, documentare tramite Internet le sue apparizioni) e simbolici, come la creazione di una maglietta con la scritta “Io sono amic@ di Pino Masciari” o l’aggiunta del cognome Masciari al proprio. Ma anche divulgare la sua storia è, oltre che un atto di solidarietà, un gesto di legalità e di speranza. Serve a togliergli lo status di uomo solo. E a regalare al coraggio un paio d’ali.