Fonte: Corriere della Sera
Nell\’ultimo mese e mezzo, quando ormai sapeva d\’essere chiuso in una tana senza uscita dopo che i poliziotti gli avevano fatto bloccare i conti, sequestrato le società, piazzato microspie in ogni stanza, nei suoi ultimi cinquanta giorni di libertà Giulio Lampada pagava i conti degli alberghi con sacchi di monetine. Quelle che lui, arrestato mercoledì scorso per associazione mafiosa accusato di essere il grande manager della famiglia Valle della \’ndrangheta, prendeva personalmente ogni giorno da quei videopoker che aveva disseminato in tutta la città. «Ho una chiave per aprirli, sono il mio bancomat» diceva intercettato. Ne ricavava 40 mila euro al giorno, il manager Lampada. Attività lecita e illecita: ottiene le licenze ma froda lo Stato evitando di collegarle alla rete dei Monopoli, nascondendo quindi guadagni e trucchi per spennare ancora di più quei polli sui quali in dieci anni costruisce la sua fortuna. Meglio che trafficare droga.
Giulio Lampada è un boss senza pistola. «Non gira armato di pistola, ma di personal computer, non lascia teste di animale davanti alle porte delle vittime di turno, ma si occupa di bilancio – scrive il gip Giuseppe Gennari -. Questo non rende il manager meno mafioso del \”manovale\” dell\’estorsione». Il manager, appunto. Il colletto bianco che tiene i contatti con i politici, che raccoglie voti per influenzare le «libere elezioni» a Reggio Calabria come a Milano, che corrompe un giudice del Tribunale di Palmi (Giancarlo Giusti), pagandogli soggiorni dorati e prostitute al Grand hotel Brun di via Novara per 27 mila euro. E che aggancia il giudice Vincenzo Giglio di Reggio Calabria per conoscere in anticipo i dettagli sulle indagini. E che prova ad arrivare ai vertici dei Monopoli e tenta, perfino, attraverso il consigliere comunale Armando Vagliati, di cambiare il Pgt di Milano. «Voleva fare il deputato, entrare nella stanza dei bottoni», dicono gli investigatori che per tre anni sono stati la sua ombra. Nel novembre 2009 viene nominato Cavaliere di San Silvestro in Vaticano dal cardinal Bertone.
Ne ha fatta di strada Giulio Giuseppe Lampada. Anche se è nato nel \’71 e ha solo quarant\’anni. Viene da Archi, quartiere di Reggio Calabria, feudo della cosca Condello. È stato titolare di un bar pizzeria e di una macelleria. La pizzeria, in particolare, ha garantito soldi a palate. Ma nel \’99, a 28 anni – come annota la Mobile di Milano -, si trasferisce sotto la Madonnina, apre società in via Melzi d\’Eril 29. E da lì inizia l\’ascesa che lo porta a guadagnare da solo come una multinazionale intera. Il filone d\’oro è quello dei videopoker. Non sta alle regole, le infrange, le riscrive. Così che anche i proprietari dei bar abbiano la loro parte di guadagno in nero, che siano felici di aprire le porte a quel ragazzo sempre elegante, che si sposta su una Bentley. Un vizio che gli costa 2.500 euro al mese di leasing, ma che a Milano apre tutte le porte: quelle dell\’Old fashion, dei ristoranti (Porto, Alice, Gaspare) dove viene filmato da sbirri che si pagano la cena di tasca propria pur di chiuderlo in galera. Al telefono non parla dialetto calabrese e ci tiene pagare con l\’American express gold, come i signori.
Il padrino senza pistola conosce anche le regole della \’ndrangheta. Ha cellulari intestati a cinesi, ogni mese bonifica gli appartamenti dalle microspie. C\’è da sistemare una questione, con le buone o le cattive: «Ci mettiamo il passamontagna, aspettiamo fuori, come arriva, ta, ta», dice al telefono imitando la raffica di un mitra. Scrive ancora il giudice Gennari: «Sebbene abbia preferito indossare i panni del rispettabile imprenditore, conosce perfettamente i metodi mafiosi». Lampada acquista la villa (a Settimo milanese) di un personaggio coinvolto nei traffici di coca all\’Ortomercato, ha una casa bunker in un palazzo anonimo di via Carlo Dolci, 28. È sorvegliata con sensori e telecamere, ci sono inquilini che fanno da sentinella. Per piazzare le cimici i poliziotti impiegano quattro tentativi. Quando si sente braccato si sposta tra il Westin palace, l\’Nh hotel, l\’Atahotel, il Principe di Savoia e il Michelangelo. Dalle sue 5 carte di credito spariscono migliaia di euro «per gioiellerie, alberghi, noleggio di auto, casino e vestiario», in Italia come a Sankt Moritz e Lugano, Cannes e Palma di Maiorca.
Al Brun in due anni paga conti per 54 mila euro per ospiti venuti dalla Calabria. Per il battesimo di sua figlia, celebrato in Vaticano e il ricevimento al ristorante Casina di Macchia Madama, ne spende altri 15 mila. Solo dal Credito Bergamasco ha avuto finanziamenti per 1,8 milioni. Lo catturano mercoledì all\’alba a Pero, all\’Atahotel Expo Fiera. Lui, i suoi computer, le sue monetine.