Carabinieri, vigili, funzionari al servizio delle cosche. Persino un uomo dei servizi segreti lavorava per il clan Pelle, quello del boss evaso dall\’ospedale. E anche negli uffici dei pm di Milano c\’è chi informava la \’ndrangheta
La maxi-inchiesta sulla \’ndrangheta lombarda è ancora segretissima, quando una squadra di carabinieri dell\’antimafia riesce a nascondere una telecamera di fronte alla villa di un capoclan. I pm milanesi vogliono scoprire (e poter documentare) chi incontra. La missione è difficile: l\’inquisito per mafia, ufficialmente imprenditore, è molto guardingo, si circonda di collaboratori-sentinelle e abita in una via di Giussano, nella popolosissima Brianza, dove è difficile passare inosservati. Per giorni i militari si fingono operai al lavoro per strada e finalmente piazzano la telecamera in cima a un lampione. Il 20 gennaio 2009 le immagini cominciano ad essere registrate nella vicina stazione dell\’Arma di Seregno. Ma appena sei giorni dopo, l\’inchiesta è bruciata. Un complice avverte il mafioso di aver ricevuto \”un\’ambasciata dallo sbirro\”. Una soffiata precisissima: la descrizione esatta dell\’inquadratura che arriva sul monitor dei militari. Un\’immagine che può essere vista solo dall\’interno della caserma. Da un traditore dello Stato. E dei tanti carabinieri onesti che rischiano la vita per poco più di mille euro al mese.
Un anno e mezzo dopo, nel luglio 2010, quando scatta la storica retata con trecento arresti tra Milano e la Calabria, anche i presunti mafiosi brianzoli finiscono in manette, incastrati da altre microspie. Ma la talpa in divisa resta tuttora senza nome. Insieme a troppi altri uomini dello Stato passati al servizio dell\’Antistato. Al Sud come nell\’insospettato Nord.
\”L\’Espresso\” ha raccontato come l\’emissario della cosiddetta P3 si è presentato dal procuratore aggiunto di Milano, Nicola Cerrato, cercando di carpire informazioni sull\’inchiesta contro la \’ndrangheta: Pasqualino Lombardi voleva sapere se fossero indagati cinque politici del Pdl lombardo e domandò (invano) di incontrare il pm Ilda Boccassini. L\’emissario disse che lo mandava il governatore Roberto Formigoni, con cui aveva rapporti diretti. Dei cinque, il più vicino ai boss era l\’allora assessore regionale Massimo Ponzoni (l\’unico indagato, ma per altre corruzioni), però anche gli altri quattro erano citati nelle intercettazioni antimafia. Come faceva Lombardi a sapere così esattamente quali politici comparivano in atti giudiziari ancora top secret?
Giudici come Giovanni Falcone hanno insegnato che la criminalità esiste in tutti i Paesi ed è contro lo Stato, ma in Italia la mafia è dentro lo Stato. Ora l\’emergenza riguarda la \’ndrangheta, che è diventata l\’organizzazione più ricca e potente. Esaminando solo le indagini più recenti sulle cosche in Lombardia, \”l\’Espresso\” ha contato almeno 18 talpe: pubblici ufficiali che hanno svelato i segreti delle inchieste, ma sono rimasti in gran parte \”non identificati\”, come denunciano i giudici sottolineando la \”gravità\”, \”pericolosità\” ed \”evidenza\” dei loro tradimenti. Tra i tanti, c\’è perfino un \”militare in servizio alla Direzione distrettuale antimafia di Milano\”, ossia negli uffici della procura. Una talpa mai smascherata, ma attiva almeno fino al 2009, visto che a fine anno un mafioso del clan di Milano-Pioltello allertava i complici dicendo di aver \”visto insieme a quello della Dda tutte le carte con i nostri nomi\” e \”le microspie in macchina\”.
La certezza che la \’ndrangheta è riuscita a infiltrarsi perfino nella loro inchiesta, i pm milanesi la ricavano quando sentono gli stessi affiliati parlare di una seconda talpa, che a differenza della prima ha un nome: \”Michele, il carabiniere di Rho che ci passava informazioni sulle intercettazioni in cambio della mancia\”. A Rho, il comune dell\’Expo 2015, l\’inchiesta travolge quattro carabinieri accusati di corruzione. L\’appuntato Michele, al secolo Berlingieri, viene arrestato addirittura per concorso esterno in associazione mafiosa. A incastrarlo è il video di un omicidio. Il 25 gennaio 2010 il figlio di un boss calabrese ammazza a colpi di pistola un giovane albanese in un bar. L\’appuntato Michele, ignaro che i colleghi di Monza lo stanno filmando, entra nel locale, raccoglie i bossoli e li risistema per truccare la scena del delitto. Quando il killer passa la pistola a un complice, lo lascia uscire indisturbato. Poi stringe la mano al padre dell\’assassino. Commento dei mafiosi: \”Michele lo sbirro si è comportato benissimo\”.
articolo di Paolo Biondani (L\’Espresso)
Peggio di un cancro…
Un abbraccio!