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Non intende polemizzare con la Chiesa. Né sminuire il senso del messaggio – fortissimo – lanciato dall’arcivescovo di Catanzaro.

Ma vuole ribadire – questo sì – che nella lotta alla criminalità organizzata i buoni propositi («e le bellissime, condivisibili parole di monsignor Antonio Ciliberti») purtroppo non bastano. Perché la ’ndrangheta è soprattutto un fatto culturale. E per sconfiggerla – o piegarne le velleità – serve un’azione costante, incisiva, che sappia penetrare e compenetrare ogni settore della società.

Un ruolo nodale

Una sola istituzione, in Italia, ha la capacità di raggiungere (quasi) tutti e di plasmare le coscienze di molti: la Chiesa, appunto. Che nella lotta alla mafia «deve fare di più». Pino Masciari, testimone di giustizia, lancia un nuovo appello ai calabresi. E prende spunto da quanto dichiarato dal pastore della Chiesa catanzarese all’inizio della Settimana Santa. Monsignor Ciliberti s’era infatti scagliato contro la «cultura della morte», pronunciando un vero e proprio anatema contro la ’ndrangheta e i disvalori di cui la ’ndrangheta è portatrice. Un monito a intraprendere una nuova via ma che, secondo Masciari, rischia di rimanere isolato, epidermico, fine a se stesso nel caso in cui non seguano «alle belle parole» atti e fatti concreti.

Condivisione piena

«Condivido appieno le considerazioni di monsignor Ciliberti – spiega Pino Masciari dalla località protetta in cui vive da oltre un decennio con la famiglia -. Ma devo aggiungere che non sempre vedo seguire fatti concreti ai buoni propositi». Un richiamo alla Chiesa calabrese? «No, semplicemente una considerazione che trae origine dalla consapevolezza di quanto sia necessario che la stessa Chiesa si prodighi con maggiore determinazione per consentire la sconfitta della cultura mafiosa. Io ho denunciato gli interessi e gli affari della ’ndrangheta. E ho pagato un prezzo altissimo. Ho espresso questi concetti anche nel corso della tavola rotonda dei vescovi tenutasi nel 2009. Anche in quella occasione le parole furono incoraggianti. Ma purtroppo rimasero tali, perché non sono seguiti atti concreti». Atti che Masciari si aspettava dalla Chiesa? «Non solo dalla Chiesa, ma dalla società nel suo complesso. La politica e le istituzioni non sempre hanno saputo tenere distante dai propri campi d’azione il malaffare. Ed io l’ho anche denunciato. La Chiesa, poi, talvolta è stata timida nel contrastare la criminalità. E questa timidezza non ha aiutato la Calabria a isolare i malavitosi. Ecco: io ritengo che sia necessario intraprendere una nuova azione di contrasto al crimine, che veda come protagonisti principali proprio i prelati calabresi».

Esempi fulgidi

Ma vi sono moltissimi esempi di sacerdoti che si schierano contro la ’ndrangheta dando dimostrazione di grande coraggio e determinazione. Basti pensare al documento sottoscritto dai parroci del Vibonese contro i mafiosi (invitati a tenersi lontani dai templi cristiani) o alle determinazioni assunte da monsignor Luigi Renzo, vescovo di Mileto, che ha imposto l’esclusione dei criminali dalle celebrazioni popolari a carattere religioso. Oppure all’azione intrapresa da monsignor Giuseppe Fiorini Morosini (e del suo predecessore Giancarlo Bregantini) nella Locride. Tutto ciò non basta? «Sono esempi importanti, questi. Ma si tratta di iniziative isolate, appunto. Che da sole secondo me non bastano. Sono stati tanti i martiri della Chiesa. Sono stati tanti i sacerdoti che hanno dato la vita proprio per denunciare e contrastare il malaffare. Ma si è trattato di singoli episodi e singole figure. Ecco, io intendo dire proprio questo: servirebbe un’azione collettiva degli uomini di Chiesa per sperare di sconfiggere questo cancro». Un’azione collettiva che si dipani in quale direzione, e attraverso quali azioni

Educare i giovani

«La Chiesa ha gli strumenti e la forza per contrastare e mettere all’angolo la ’ndrangheta. Perché ha possibilità di stare a contatto con i giovani, di educare i giovani. Se è vero che la mafia è soprattutto un fatto culturale, è altrettanto vero che educando le nuove generazioni a una vita che sia rispettosa degli altri e delle regole riconosciute e condivise dalla società civile è possibile contrastare la “cultura della morte” cui faceva riferimento monsignor Antonio Ciliberti. Questa è la via. Questa la strada che la Chiesa deve intraprendere, iniziando a negare l’eucarestia ai criminali (che sono conosciuti da tutti) e iniziando anche a denunciare i soprusi nei confronti dei deboli commessi da questi soggetti, alla stessa stregua di quanto ho fatto io e di quanto hanno fatto tanti altri coraggiosi testimoni di giustizia che hanno pagato un prezzo altissimo alle proprie… parole».

articolo di Pier Paolo Cambareri (tratto da CalabriaOra)

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