a cura di Alina Rizzi – foto di Alfredo Lo Presti (dal settimanale Tu Style)
La tavola apparecchiata, i piatti dei bambini con la minestrina, la Gazzetta del Sud appoggiata su una sedia. Quella cena è l\’ultimo ricordo che ho di Serra San Bruno, il paese calabrese dove sono nata e in cui volevo vivere con mio marito Pino. Era la sera del 17 ottobre 1997, e dopo cena avevamo messo a letto Ottavia e Francesco, di uno e due anni, sperando si addormentassero subito. Alle 11 suonarono alla porta: erano i carabinieri, che ci venivano a prendere per portarci nella nostra nuova vita, lontano dalla nostra casa e dai rischi a cui ormai eravamo esposti da qualche tempo.
Era l\’inizio del nostro inserimento nel programma speciale di protezione, in cui gli inquirenti avevano deciso di farci entrare dopo le denunce di mio marito contro i più potenti boss della \’ndrangheta locale. Non avevamo idea di che cosa ci aspettasse veramente, ma la responsabilità verso i nostri figli ci suggeriva che quella era l\’unica strada percorribile.
Quando io e Pino ci sposammo, io già esercitavo come dentista, dopo essermi laureata in medicina. Mio marito faceva l\’imprenditore edile, come suo padre, e aveva appalti importanti, decine di operai che lavoravano per lui. Non chiedevamo grandi cose, se non di realizzarci nel lavoro, avere figli e formare una famiglia unita nella nostra terra, la Calabria. Invece ci siamo ritrovati soli, a combattere un cancro sociale che in quegli anni neppure aveva un nome.
All\’inizio erano solo richieste di favori, consigli su chi assumere o dove comperare i materiali. Poi, quando mio marito ha deciso di dedicarsi, agli appalti pubblici, sono arrivate le richieste di tangenti sui lavori svolti e, in seguito ai suoi dinieghi, sono giunte vere e proprie minacce. La formazione e l\’educazione di mio marito non gli consentivano di accettare quel tipo di compromesso, quindi, dopo averne parlato a lungo, decidemmo di rivolgerci alle autorità.
Fin dall\’inizio non fu facile per Pino trovare qualcuno che ascoltasse le sue denunce. Attorno a noi c\’erano paura e un clima rassegnato, in cui le collusioni erano presenti a tutti i livelli. Non se ne parlava apertamente, la \’ndrangheta sembrava non esistere, e le stesse forze dell\’ordine dissero a mio marito che denunciare sarebbe stato pericoloso: in ballo c\’era la vita, e la vita è una cosa preziosa. Poi, dopo le stragi di Falcone e Borsellino, lo Stato si rese finalmente conto che per combattere la malavita organizzata c\’era bisogno di una risposta altrettanto organizzata, e fu istituita la Direzione distrettuale antimafia, che prevedeva un coordinamento nazionale. Fu uno spiraglio che si apriva per chi, sul territorio, voleva opporsi e, grazie a un maresciallo dei carabinieri, vennero finalmente raccolte le denunce di mio marito.
Con l\’inizio delle denunce, però, cominciammo a sentirci davvero in pericolo. Eravamo esposti alle ritorsioni di una delle organizzazioni criminali più potenti del mondo e quindi venne deciso che avremmo dovuto trasferirci in una località protetta. «È una follia» ripetevo a mio marito. «Noi siamo le vittime, eppure tocca a noi nasconderci, e lasciare tutto ciò che amiamo». Ma avevamo due bambini piccolissimi da proteggere, e il senso di responsabilità ci impose di accettare. Cosi, quella notte i carabinieri ci scortarono verso nord. Inizialmente ci dissero che il nostro allontanamento sarebbe stato momentaneo ma, più il tempo passava, più ci rendevamo conto che non sarebbe stato cosi.
Il senso di isolamento che provavamo era infinito. E anche quello di precarietà. Ogni tanto uno spostamento, in altra località, in altre case, in altri luoghi per noi sconosciuti e anonimi. Ci sentivamo abbandonati, senza prospettive. Vivere sotto protezione, in quegli anni, significava diventare fantasmi. Perfino usare le tessere sanitarie significava lasciare tracce della nostra esistenza e diventare quindi bersagli facili. In quel periodo lo Stato non era pronto a gestire figure come quella di mio marito, che era un \”testimone di giustizia\”. Mancava completamente una legge che ci tutelasse e quindi spesso venivamo scambiati per tutt\’altro genere di persone.
Che vita era la nostra? I miei figli vivevano in gabbia, non avevano amici, non erano mai stati al cinema. La tensione era indescrivibile. Mi sentivo l\’elemento di equilibrio tra la rabbia di mio marito, che non si rassegnava alla condizione di sofferenza quotidiana della sua famiglia, e il bisogno di serenità dei miei bambini, quindi ero diventata una specie di cuscinetto ammortizzatore. Quella situazione mi fece ammalare: divenni bulimica e depressa, volevo dormire sempre, stavo perdendo la voglia di vivere. Quando Pino partiva per testimoniare, io stavo a casa con i bambini, senza scorta, e per giorni aspettavamo che tornasse, con la paura che potesse succedergli qualcosa, sempre senza serenità.
Nel 2001 finalmente fu approvata la legge 45, che prevedeva uno specifico programma di protezione per i testimoni di giustizia e poi nel 2005 il \”caso Masciari \” fu discusso in Parlamento (furono 40 le persone fatte arrestare grazie alle testimonianze di mio marito, tra cui anche alcuni magistrati).
A quel punto abbiamo avuto almeno il sollievo di vedere che la giustizia faceva il suo corso, che non ci eravamo sacrificati inutilmente, che la nostra incrollabile fiducia nello Stato era stata ben riposta.
Ad aprile del 2010 finalmente uscimmo dal programma e fummo liberi di scegliere e arredare una casa nostra, per la prima volta. Mio marito viaggia ancora con la scorta, perché si muove spesso per parlare di noi, rendere pubblica la nostra storia, portare avanti quei valori di legalità e onestà che hanno segnato la nostra vita, e per dire che denunciare è possibile. Il blog www.pinomasciari.it raccoglie migliaia di amici e di contatti ogni giorno. È bello, oggi, trovare attorno a noi quel senso dello Stato che tutti dovrebbero avere, e la volontà crescente di voler cambiare le cose.
Mi chiedo sempre, com’è possibile che una famiglia per bene debba andare a nascondersi?
Un carissimo e caloroso abbraccio Marisa, Pino, Ottavia e Francesco! Vi voglio bene!
Grande Marisa,sono sicura che senza la presenza e l’Amore di una donna come te ,Pino non avrebbe avuto la forza che sta dimostrando.
Ogni giorno con il nostro comportamento, i nostri pensieri, le nostre parole, cerchiamo di trasmettere a nostro figlio i valori che la vostra famiglia ha così bene espresso con le sue scelte. Non è facile in un mondo che sembra sempre di più voler negare questi valori ma non cederemo ed il vostro esempio è di grande incoraggiamento. Per noi che viviamo al nord, in realtà nelle quali non ci si deve per fortuna confrontare quotidianamente con queste organizzazioni criminali – anche se ben sappiamo che sono presenti ormai su tutto il territorio nazionale – per noi è certo più facile fare appello a quei valori ma per chi vive immerso in quelle realtà la scelta è difficile e spesso insostenibile. Per questo un sincero grazie a voi che avete trovato il coraggio che forse pochi di noi, qui al nord, avrebbero.
…“dietro ogni grande uomo c’è sempre una grande donna”
sono d’accordissimo con te antonino, grande donna.
Sono una ragazza calabrese che sogna di diventare un bravo magistrato e leggere il vostro libro mi ha dato nuova forza per perseguire il mio difficile obiettivo!Sono le persone come voi che mi rendono fiera di appartenere ad una terra così difficile…un abbraccio a voi e ai vostri figli…