Di Alberto Terraneo (L’Esagono – il giornale della Brianza)
L’uomo che ha detto no alla ‘Ndrangheta
Lissone. La storia dell’imprenditore calabrese è divenuta un’icona della lotta alla mafia e alla corruzione nel pubblico
Pino Masciari la sua storia la racconta con rabbia, alzando la voce, arrabbiandosi, mostrando quel suo “cuore da leone che ha maledettamente paura, ma che non poteva girare lo sguardo dall’altra parte e far finta di niente”. Lui è l’imprenditore miliardario ribellatosi alla ‘Ndrangheta, l’industriale amante delle spider fuggito di nascosto una notte del lontano 1997 su una Passat pper salvare la vita sua e della famiglia, un uomo abituato a vivere nel lusso in riva al mare della Calabria che da tredici anni trascorre le proprie giornate, privato della libertà. Gira l’Italia seguito da una scorta che non lo lascia solo nemmeno un secondo, racconta senza sosta quello che gli è capitato per far capire che la mafia si sconfigge soltanto rimanendo uniti.
Mercoledì sera lo ha ospitato la sede del Partito Democratico e lui si è raccontato per l’ennesima volta. Ma Pino, come si fa chiamare, non ne fa una questione di politica. A lui il pizzo lo ha chiesto, oltre alla ‘Ndrangheta, la destra, il centro e la sinistra. I primi volevano il 3% sugli appalti, i secondi, “i gestori della burocrazia”, il doppio. E lui, imprenditore edile di successo, a metà anni Novanta ha iniziato a denunciare. “Le Forze dell’ordine mi dicevano di stare attento, che rischiavo la vita, ma io non accettavo di pagare”. Il rifiuto provoca furti, sabotaggi, incendi, spari, intimidazioni ai dipendenti. I muri spuntano ovunque. “Allora mi sono detto: io chiudo e vediamo se lo Stato si fa vivo. Invece no, non importava niente a nessuno”.
In Tribunale, invece, i suoi racconti interessano quei Giudici che la lotta alla mafia vogliono portarla avanti per davvero. Masciari fa nomi grossi, chiama in causa gli Arena e i Mazzaferro, racconta della corruzione dilagante all’interno della pubblica Amministrazione. Finchè un giorno la Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro gli impone di fare le valigie e sparire al Nord. In Calabria la sua vita è in pericolo. Il 17 ottobre 1997, nel buio della notte, fugge con moglie e figli (di uno e due anni) verso Ravenna. “Mentre venivo via, riuscivo a scorgere i luoghi in cui avevo cantieri, vedevo la mia vita che lasciavo per sempre”. In Calabria abbandona gli otto fratelli e la mamma, che rivedrà per dieci minuti soltanto cinque anni dopo. Pino diventa un numero di matricola, 1.663, a cui il Ministero dell’Interno vieta di tornare in Calabria assegnandoli il Programma di protezione speciale. “Ma io sono un imprenditore, non dovrei essere qui a parlare, dovrei stare nei cantieri a lavorare. Invece sono una nullità e a mia moglie e i miei figli ho fatto vivere l’Inferno”.
Nel 2009 subisce gli ultimi due attentati, una notte si ritrova in camera da letto quattro persone incappucciate. “La mafia mi ha dato un segnale: ti troviamo quando vogliamo, sappiamo dove sei”. Qualcosa, da allora, si è mosso. Pino è entrato nelle scuole, nelle università, ha raccontato la sua storia sul suo blog e in un libro. “La gente, i ragazzi, mi hanno dato vita”. Al Ministero dell’Interno si sono presentati dei giovani che hanno chiesto di poter aggiungere sulla loro carta d’identità il cognome Masciari. Altri gli hanno dedicato la loro tesi di laurea.
Lui sul suo libro si è limitato a scrivere che chiunque conoscerà la sua storia, gli allungherà la vita di un giorno. “Io chiedo solo di poter tornare in Calabria, a lavorare. Possibile che io ho denunciato i mafiosi, ma chi ha dovuto abbandonare la propria terra è stato il sottoscritto? No, io sono una persona normalissima, sono gli altri che sono anormali. Oggi si specula sull’antimafia, io le persone invece le ho fatte arrestare per davvero”.