di Lucio Musolino (Il Fatto Quotidiano)
La strategia della tensione della \’ndrangheta. Gli attentati al procuratore Di Landro sono il filo rosso che unisce il terzo livello della mafia calabrese, la più potente e raffinata del mondo. Ecco, allora, la cronaca di un anno, il 2010, vissuto in nome di un attacco frontale delle cosche allo Stato.
“La criminalità non si può vincere solo con le sentenze o con i provvedimenti restrittivi”. Il procuratore generale di Reggio Calabria Salvatore Di Landro definisce “il 2010 un periodo orribile che passerà alla storia della città dello Stretto”. All’incontro organizzato ieri dal movimento “Reggio non tace”, Di Landro parla di “situazione drammatica che non sappiamo se e quando finirà. La criminalità organizzata è scesa in campo in un momento storico preciso, perché la magistratura è diventata più forte”.
L’anno che si è appena chiuso, infatti, è stato caratterizzato dalla “strategia della tensione”. Bombe, proiettili, lettere di minacce e bazooka. Tutto fa brodo in un disegno criminale in cui la ‘ndrangheta è solo uno degli attori assieme alla massoneria, alla politica e ai servizi deviati. Ripercorriamo, allora, i fatti più eclatanti.
3 gennaio 2010: l’attentato alla Procura generale
Ancora deve spuntare l’alba. Un boato in via Cimino, in pieno centro storico. La città si sveglia stordita. Una bombola a gas collegata a un panetto di tritolo viene lasciata la notte del 3 gennaio davanti alla porta della Procura generale. Attacco allo Stato. Un messaggio alla magistratura che, da mesi, ha messo le mani sul terzo livello. Ancora siamo lontani dalle manette. Ma il loro tintinnio, per via delle voci che si rincorrono, si avverte da tempo in città. Un messaggio alla magistratura, al nuovo corso della Procura generale ma anche a una Direzione distrettuale antimafia che si è spinta in avanti. Una telecamera riprende tutto. Due persone, a bordo di uno scooter, arrivano in via Cimino. Accendono la miccia e posizionano la bomba davanti alla porta d’ingresso. Trenta secondi e l’ordigno esplode.
21 gennaio: paura per il corteo del presidente della Repubblica
Diciotto giorni ancora. Il 21 gennaio, in via Ravagnese, viene fatta ritrovare una Fiat Marea nera imbottita di armi. L’auto si trova a poche centinaia di metri dall’aeroporto, lungo il tragitto del corteo presidenziale. A Reggio c’è il Capo dello Stato Giorgio Napolitano. Da lì a poco sarebbe dovuto passare nei pressi di via Ravagnese. Per la prima volta entra in scena il commercialista Giovanni Zumbo. Una figura strana intercettata pochi mesi più tardi con Giovanni Ficara a casa di Giuseppe Pelle mentre informava i due boss circa le inchieste “Crimine” e “Infinito” delle Dda di Reggio e di Milano.
Da amministratore di beni confiscati alle cosche a consulente dell’ex assessore regionale Alberto Sarra (oggi sottosegretario del governatore Scopelliti), Zumbo vanta amicizie importanti nei servizi segreti e contatti preziosi con uomini del Ros. L’unico accertato, però, è quello con l’appuntato dei carabinieri Roberto Roccella. A lui, il commercialista-talpa dà la notizia della Fiat Marea di via Ravagnese, abbandonata lì con le portiere aperte e con armi “confezionate” per lanciare un messaggio chiaro alla magistratura e allo stesso tempo per far ricadere la colpa su Pino Ficara, il cugino odiato di Gianni “reale” regista della “tragedia”.
Per quelle armi vengono arrestati prima il meccanico Francesco Nocera (condannato in primo grado a 4 anni) e poi l’imprenditore Demetrio Domenico Praticò, accusato di associazione a delinquere di stampo mafioso e detenzione di armi. È già in carcere, invece, Giovanni Ficara finito in manette poche settimane prima nell’ambito dell’operazione “Reale”.
Febbraio criminale
A inizio febbraio una lettera di minacce e una cartuccia vengono recapitate al sostituto procuratore della Dda Giuseppe Lombardo. Un’intimidazione che arriva qualche giorno dopo la requisitoria del processo “Testamento”. Ma soprattutto è di Lombardo l’inchiesta “Meta” che, a luglio, stroncherà la ‘ndrangheta reggina facendo luce sulla modifica degli accordi del 1991 tra le cosche uscite dalla seconda guerra di mafia. La stessa inchiesta del Ros che porta alla sbarra 42 persone, importanti imprenditori della città e pezzi da novanta delle famiglie mafiose come Pasquale Condello alias “il Supremo”, Pasquale Libri e Giuseppe De Stefano. Sono loro i tre mammasantissima attorno a cui ruotano tutti gli affari sporchi della città, dalle estorsioni agli appalti pubblici. Coinvolti anche esponenti di primo piano della politica. Nell’ombra, forse, qualche testa pensante, pupara di un sistema che ha trasformato Reggio in un pantano senza fine. Consiglieri comunali che vengono intercettati mentre barattano posti di lavoro e consulenze con voti e tessere di Forza Italia. Nell’informativa del Raggruppamento operativo speciale dei carabinieri finisce di tutto, le conversazioni tra due imprenditori che indicano in Consolato Scopelliti, in arte “Tino”, colui che prende le “mazzette” dalle imprese che vincono gli appalti al Comune. Comune retto dal fratello, Giuseppe Scopelliti che, stando sempre dall’informativa del Ros, viene visto partecipare a un pranzo al ristorante dove si festeggiava l’anniversario di matrimonio dei genitori di due imprenditori reggini in odor di mafia, uno dei quali arrestato nell’operazione “Meta”. A quel pranzo partecipa anche il boss Cosimo Alvaro, l’unico sfuggito alla cattura a fine maggio.
Poche settimane prima del blitz, una seconda lettera minatoria indirizzata al sostituto Lombardo che fa il paio con il proiettile al sostituto della Dda Antonio De Bernardo (intercettato all’ufficio postale di Montebello Jonico) e con la busta recapitata al procuratore Pignatone al Cedir, il palazzo che ospita gli uffici giudiziari ma anche i parcheggi delle auto blu. La “mano nera” arriva anche lì dove la sorveglianza è h 24. Le blindate del procuratore generale Di Landro e del sostituto Adriana Fimiani vengono manomesse mentre sul parabrezza dell’auto del procuratore di Palmi Giuseppe Creazzo viene lasciato un proiettile.
Luglio: il maxiblitz
Mentre il governo approfitta per continuare con le passerelle in Prefettura, la magistratura reggina continua a lavorare in un territorio che, per dirla alla Di Landro, “è di frontiera e lo sarà sempre”. Le indagini vanno avanti, parallelamente a quelle di Milano. Il 13 luglio scattano gli arresti: in provincia di Reggio e in Lombardia 300 persone finiscono in manette per associazione mafiosa.
Un agosto caldissimo
Il 26 agosto, la ‘ndrangheta alza nuovamente il tiro. Sempre due persone a bordo di uno scooterone piazzano un ordigno davanti al portone dell’abitazione del Procuratore generale Di Landro, da pochi minuti rientrato a casa. Sventrato l’ingresso del palazzo. Lo Stato, latitante fino ad ora, si è accorto che il magistrato “preso di mira” non aveva una scorta, ma una semplice tutela. Dopo otto mesi dalla prima intimidazione, nessuno presidiava la sua abitazione. La tensione è altissima. Da Gerace, alle 3 di notte, Nicola Gratteri senza scorta rientra a Reggio e presiede il vertice notturno con le forze dell’ordine. Partono le indagini che, già l’indomani mattina, finiranno sulla scrivania del procuratore Vincenzo Antonio Lombardo.
Ottobre: arriva l’esercito
Occorrerà arrivare al 5 ottobre, quando viene fatto trovare un bazooka “per Pignatone” a poche centinaia di metri dal Cedir, affinché il governo mandi l’esercito a Reggio Calabria. Un presidio “discreto” degli uffici giudiziari e delle abitazioni di alcuni magistrati che consentirà alle forze dell’ordine di impiegare più uomini nelle strade. In riva allo Stretto, da qualche settimana, si è aperta una nuova stagione di pentiti. Decidono di collaborare con la giustizia prima Roberto Moio, genero del boss Giovanni Tegano, e poi il boss Nino Lo Giudice, detto il “Nano”. Proprio quest’ultimo, viene arrestato pochi giorni dopo il rinvenimento del bazooka nell’ambito di un’altra indagine. Il 15 ottobre decide di collaborare e confessa di essere l’autore delle due bombe alla Procura generale e di essere il responsabile del lanciarazzi abbandonato nei pressi del Cedir. Inizia a fare i nomi dei complici, e gli uomini della Mobile arrestano Antonio Cortese. Sarebbe stato lui il bombarolo secondo la ricostruzione del pentito che, comunque, sembrerebbe non avere avuto grossi interessi personali per intraprendere, da solo, una guerra con lo Stato.
E così ieri il grande corteo di Reggio è stata l’ultima forte risposte della società civile. “Una guerra che si può vincere”, dice il procuratore aggiunto Michele Prestipino, pochi minuti prima del corteo di “Reggio non tace” che ha realizzato anche un video in occasione dell’anniversario della prima bomba di via Cimino. Il magistrato ha esortato la società ad abbandonare l’omertà e non farsi condizionare dalla paura: “I mafiosi sono preoccupati di perdere il consenso, di non avere più presa in mezzo alla gente”.
Intanto, in questi mesi, Nino Lo Giudice sta continuando a collaborare. Sta parlando dei rapporti tra ‘ndrangheta e politica giurano i magistrati reggini che hanno riempito già centinaia di pagine dei verbali. Sulle bombe e sulla strategia della tensione il quadro non è ancora completo. La procura di Catanzaro continua a indagare per definire i contorni di un’azione che, certamente, non può essere stata architettata dal solo “Nano”. Il sospetto è che la “il regista”, magari un insospettabile, sia altrove e che, forse, sia stato già iscritto nel registro degli indagati.