Quasi millesettecento anni di carcere e una sentenza «importante dal punto di vista giudiziario, storico, sociologico, antropologico». Non ha usato mezzi termini il procuratore aggiunto della Dda di Reggio Calabria, Nicola Gratteri nell’invocare la condanna di 118 dei 120 imputati del maxiprocesso Crimine. E ha chiesto pene durissime, da un minimo di cinque fino a oltre 20 anni di reclusione. Richieste pesanti per un procedimento che si svolge con rito abbreviato e prevede quindi condanne scontate di un terzo. Ma Crimine, approdato nelle aule giudiziarie in seguito alla maxioperazione che nel luglio dell’anno scorso ha portato a oltre 300 arresti fra la Calabria e la Lombardia, non è un processo come tanti. Sotto la lente del pool coordinato da Gratteri non sono finiti gli affari di una famiglia o di un clan, ma la struttura stessa della ndrangheta del reggino, le sue articolazioni, i suoi meccanismi di funzionamento e le sue strutture. Soprattutto quelle di compensazione e controllo.
Come la “Provincia” – ha spiegato il procuratore nella sua requisitoria – una «struttura sovraordinata a regolamentare la politica criminale, l’osservare e far osservare le regole ai rappresentanti e ai partecipi dei locali». Un organismo che, dalla remota provincia in fondo allo stivale, detta legge a Milano come in Australia, a Genova come in Germania o in Canada. Di cui tutti, anche magistrati e investigatori, parlano da decenni. Ma che nessuno dei maxiprocessi celebrati fino ad oggi in Calabria – come Olimpia, che ha fatto luce su quella guerra di ndrangheta che in meno di due anni ha fatto registrare oltre settecento morti solo a Reggio città, o “Armonia”, che ha svelato l’esistenza del “Crimine” come camera di compensazione dei clan della provincia jonica- è mai riuscito a far riconoscere con sentenza definitiva. Esistenza che la sentenza del maxiprocesso Crimine potrebbe per la prima volta far affermare come verità giudiziaria e non solo storica.
«In questo procedimento non ci sono alchimie, magheggi o voli pindarici – ha affermato Gratteri-. Questo procedimento è stato riempito di contenuti, soprattutto, dalla voce degli attori protagonisti, e cioè degli odierni imputati». Sono infatti le ore e ore di conversazione degli affiliati registrate dalle cimici dei Ros a costituire la principale fonte di prova contro i 118 imputati. Conversazioni durante le quali si è discusso di affari, equilibri, appalti, locali e zone di appartenenza e interesse. Ore e ore di discussione più o meno cifrata, durante le quali è venuto fuori il lato più imprenditoriale della ndrangheta – dagli appalti dell’Expo ai cantieri in Calabria – così come quello più spietato e violento. E se le intercettazioni audio non dovessero bastare, ha ricordato ancora il procuratore aggiunto, «questa volta abbiamo anche i video nei quali s’immortala il neo-eletto capo crimine, ricevere gli auguri, dargli la legittimazione della nuova e superiore carica, proprio davanti alla Madonna di polsi».
Un’elezione celebrata in quello che viene definito il santuario della ‘ndrangheta e che ha dato a Domenico Oppedisano la facoltà di intervenire su controversie nate fra locali e affiliati in ogni angolo del globo. Un’elezione che oggi mette l’ultraottantenne Oppedisano di fronte ad una prospettiva di vent’anni di carcere. Medesima condanna è stata chiesta per boss del calibro di Rocco Aquino, Remingo Iamonte, Nicola Gattuso, Peppe Marvelli e Giuseppe Commisso, “il Mastro”, tutti esponenti della ndrangheta che conta dei tre “mandamenti”, le zone di influenza in base alle quali le ndrine si dividono soldi, sangue e affari.
Fonte: Terranews.it