Senna Comasco. Le lacrime di commozione, nel pensare ai bambini che per anni non sono potuti andare a una banale festa di compleanno. Il dolore dopo la fuga forzata dalla famiglia, per essere sottoposto con la moglie e i figli al programma di protezione testimoni. Perché testimone di giustizia – tutto il contrario di un pentito di mafia – è Pino Masciari, imprenditore edile calabrese, disposto a vivere per anni sotto scorta. Nel nome di uno Stato che rispetta e che lo ha nascosto per difenderlo. Masciari ha denunciato le collusioni tra politici, magistrati e la ‘ndrangheta. Le sue testimonianze hanno portato a decine di condanne. Emozionato nel corso di una conferenza a Senna, organizzata dal comune al centro sociale di via Roma, mercoledì sera ha raccontato a più di duecento persone la sua storia. “Non si uccide soltanto premendo il grilletto. Si uccide anche con l’indifferenza”.
Pino Masciari, nato a Catanzaro nel 1959. “Ieri erano i meridionali brava gente a salire al Nord, per lavorare. Oggi sono i dirigenti nordici a scendere in Calabria. Il mio sogno era restare lì per lavorare onestamente negli appalti pubblici. La ‘ndrangheta è venuta a bussare. Volevano il 3 %. Sono andato dai carabinieri: ‘Pino, guarda che qui rischia la vita’ mi hanno detto. Non trovavo lo Stato. Non c’era. L’unico stato riconosciuto era quello mafioso.” Nel ’93 le prime vendette. “La merce spariva di notte. Arrivavano incappucciati. Intimidivano i miei dipendenti. Incendiavano i depostiti. Sabotavano i mezzi. La politica pretendeva il 6% per i lavori pubblici. Ho avuto paura”. Un matrimonio, due figli. “Mi hanno bruciato la macchina. Stavano bruciando anche la mia casa. Allora lo Stato ha detto: dovete andarvene. Ma come, io che ho denunciato quella politica marcia, dovevo andarmene? E senza dire nulla alla mia mamma e ai miei fratelli. ‘Se a loro volete bene, non dite niente’. Si trattava di una fuga. Doveva durare sei mesi. Massimo un anno”.
Invce, sono passati anni da quel 18 ottobre 1997. Il viaggio di notte in un furgone con i carabinieri, l’arrivo in un casolare a Mezzano i Ravenna, aperta campagna, nebbia. “Mio figlio di due anni non rideva più. A mia figlia è venuta la febbre. Mia moglie, professionista odontoiatra, è diventata bulimica. Mi sentivo un padre disperato. Eravamo dei nessuno. Ho vissuto l’inferno. Dieci anni nell’isolamento più totale. Un trasloco ogni tre, cinque, sei mesi”. Rari gli incontri con la madre. “Una volta, di notte. Su uno spiazzo in riva al mare. Ci siamo abbracciati per dieci minuti. Poi ognuno è andato per la sua strada e mi si è spezzato il cuore. Mi hanno consigliato di non partecipare ai suoi funerali. Ma ci sono andato lo stesso. Per anni, fino al 2006, i miei figli non sono andati al cinema. Eravamo costretti a stare in casa, scortati ventiquattr’ore su ventiquattro”.
Dopo anni, la tormentata conclusione a cui è arrivato Masciari – nel 2010 , ha concordato l’uscita dal programma e vive alla luce del sole, scrive libri, gira nelle scuole – è una sola. “Ha vinto la giustizia. Le istituzioni vanno rispettate. Ma gli uomini che non ne sono degni vanno denunciati. Mi sono comportato da persona normale, allo specchio vedo un uomo vero. Gli altri sono malati. La mia parte l’ho fatta, sono con le persone perbene e oneste. Abbiamo bisogno di questo, non di eroi, di martiri, di vittime. E se gli altri muoiono un po’ alla volta, giorno dopo giorno, io so che morirò una sola volta. Con dignità”.
Di Christian Galimberti (tratto da La Provincia)