Fonte: La Repubblica
Coperto dal massimo riserbo, a porte chiuse, si è svolta ieri mattina in Tribunale l’udienza preliminare per il delitto di tre persone affiliate alle cosche calabresi. I tre omicidi, a Volpiano, risalgono al giugno ’97. La macchina della giustizia ha potuto mettersi in moto grazie alle rivelazioni di un pentito di spicco.
Porta il nome di una famiglia legata alla ‘ndrangheta tra le più potenti e rispettate nel Torinese. Lui stesso è stato iniziato alla «onorata società». Vent’anni da mafioso. Fino alla decisione di passare dalla parte della legge. E’ forse il più importante collaboratore di giustizia a Torino degli ultimi vent’anni. Le sue dichiarazioni hanno consentito di smantellare organizzazioni e traffici illeciti, dall’Italia all’Australia, al Sud America. E’ proprio questa la materia dell’udienza di ieri, davanti al giudice Vincenzo Bevilacqua.
Sott’accusa sono i presunti killer Rosario Marando e Natale Trimboli (avvocati Francesco Lojacono e Enrico Bucci); gli «aiutanti» Santo Giuseppe Aligi (difeso da Mario Santambrogio) e Giuseppe Perre (avvocato Walter Campini); Gaetano Napoli (difeso da Giovanni Aricò e Giovanni Beatrice Araniti), incaricato di bruciare l’auto delle vittime.
Il calendario torna al giugno 1997. Tre omicidi (Antonino e Antonio Stefanelli, padre e figlio, assieme al guardaspalle Francesco Mancuso) per vendicare il delitto di Francesco Marando, ammazzato il 3 maggio ’96 e bruciato nei boschi di Chianocco, in Val di Susa. Nell’udienza di ieri mattina gli avvocati difensori hanno sollevato alcune eccezioni a proposito dei tanti «omissis» (notizie coperte dal segreto istruttorio, ndr) nei verbali. «Abbiamo bisogno che qualcosa ci venga rivelato per assistere meglio i nostri clienti» hanno spiegato i legali. Ma il pm Roberto Sparagna ha replicato che quegli «omissis» sono necessari perché riguardano persone non coinvolte nell’inchiesta. Il giudice Bevilacqua si pronuncerà in merito il 24 maggio prossimo.
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Montagne di interrogatori raccolti con pazienza da investigatori dell’Arma e magistrati. Poche persone. Massima riservatezza. Fino a qualche settimana fa, soltanto loro sapevano. Ma le regole del processo obbligano la procura a svelare le proprie fonti. E così, è spuntato il nome di Rocco Marando, 44 anni: la sua famiglia controllava la zona di Volpiano, avamposto piemontese del clan Sergi-Marando-Trimboli, cosca temutissima a Platì.
IL PENTIMENTO
E’ il 26 marzo 2009. Rocco Marando è seduto davanti al procuratore aggiunto Sandro Ausiello e al pm Roberto Sparagna. «Intendo rispondere e collaborare con la giustizia. E’ una scelta autonoma che io ho preso come \”scelta di vita\”, mentre fino ad oggi le mie scelte erano sempre quelle volute dai miei fratelli. Finalmente scelgo con la mia testa». Poi, aggiunge: «Il collaborare, in primo luogo, risponde all\’esigenza di consentirmi di allontanarmi dall’ambiente criminale in cui ho sempre vissuto. Inoltre, vorrei consentire a mio figlio (…) di vivere una vita normale e di non avere a che fare con la delinquenza. Non so se vi riuscirò, mia moglie non sa della mia scelta. Se lo sapesse mi darebbe una pistolata».
L’AFFILIAZIONE
«Fu mio fratello Pasqualino a propormi di entrare a far parte della predetta associazione. L\’affiliazione avvenne prima del mio matrimonio, forse nel 1989, nel giardino di (…). Mi trovavo a Volpiano al bar (…) quando venni raggiunto da mio cognato Perre Giuseppe, che mi ha invitato ad andare con lui. Sorrideva. Lungo il tragitto verso il giardino di (…), Perre mi disse che di lì a poco mi avrebbero \”battezzato”, ossia che sarei entrato a far parte della ’ndrangheta. Altra frase che si usa per indicare l\’ingresso nella ’ndrangheta è \”il taglio della coda\”. Perre mi disse che mi avrebbero fatto la seguente domanda: \”Cosa vai in cerca?” e che io avrei dovuto rispondere: “Onore e sangue”. Far parte della ’ndrangheta è un onore e si è rispettati. Io fui contento di essere stato “battezzato”. A seguito dell’affiliazione, ho assunto il grado di \”picciotto\” ossia il livello minimo dell’associazione. In Calabria vi sono tante ripartizioni territoriali quasi per ogni Comune. La stessa ripartizione territoriale è ripetuta fuori dalla Calabria. Ad esempio, in Piemonte vi è la società di Volpiano (cui appartengo), quella di Torino, quella di Chivasso, quella di Bardonecchia (tra le prime in Piemonte) e quella della zona di Moncalieri».
GLI AFFARI
«Nel periodo in cui i miei fratelli erano detenuti, ossia tra il 1992-1995, ho trattato sostanze stupefacenti. In particolare, ho trasportato droga da Platì a Torino. Tutti i miei fratelli, tranne Nicola, hanno trattato droga, in quantitativi rilevanti. In particolare, mio fratello Pasqualino aveva i contatti diretti con un colombiano e riusciva a far pervenire in Italia soprattutto la cocaina, droga che poi nei fratelli e la famiglia (…) ed altre poche persone provvedevamo a detenere e spacciare. Lo spaccio di sostanze stupefacenti era l\’attività principale, se non esclusiva, di noi Marando. I quantitativi di droga, per quanto ne so, arrivavano tramite nave al porto di Genova e poi venivano trasportati con il camion in zone limitrofe a Volpiano».
GLI OMICIDI
A proposito degli omicidi di Antonino e Antonio Stefanelli e Francesco Mancuso Rocco Marando racconta: «Con riferimento all\’omicidio degli Stefanelli e Mancuso, riferisco che l\’omicidio è avvenuto a Volpiano a casa di mio fratello Domenico. In casa al momento dell’omicidio vi erano: Napoli Gaetano, Trimboli Natale, Trimboli Rosario, i miei fratelli Marando Domenico e Rosario, Leuzzi Giuseppe e mio zio Perre Giuseppe. Avrei dovuto partecipare all\’incontro, ma così non avvenne. Sapevo che gli Stefanelli sarebbero stati uccisi durante l\’incontro. Non si parlava d\’altro tra noi fratelli e tra i Trimboli suddetti. Fu Pasqualino, in carcere, a dirci che dovevamo eliminare gli Stefanelli in quanto responsabili dell’omicidio di mio fratello Francesco. Così avvenne. Gli Stefanelli e Mancuso, tramite Leuzzi e Perre, vennero invitati a casa di mio fratello Domenico. Non appena entrarono in casa, mio fratello Rosario e Trimboli Natale sparano dei colpi di pistola con il silenziatore a Mancuso e al nipote Stefanelli Nino. Li colpirono alla schiena. Poi, lo zio Stefanelli Antonino, vistoche i suoi due familiari erano stati uccisi, chiedeva pietà e diceva che ad uccidere Francesco erano stati suo nipote Nino e Mancuso, dicendo \”io non c\’entro niente\”. Rosario mi disse che per uccidere Antonino sono serviti più colpi di arma da fuoco poiché non moriva. Fu mio fratello Rosario ad uccidere Stefanelli Antonino con più colpi. Anch’io avrei voluto partecipare all’esecuzione dell’omicidio per quello che avevano fatto a mio fratello. Non nascondo che se fossi stato presente avrei sparato anch’io, forse per primo».
Claudio Laugeri, La Repubblica