A quarant’anni dalla morte del giornalista, le sue parole sono ancora attuali
Era la sera del 5 gennaio 1984, quando alle ore 21, Pippo Fava e il collega Michele Gambino erano appena usciti dalla redazione de “I Siciliani”, dove poco prima si stavano occupando di una delicata inchiesta sul rapporto mafia-banche. Dopo aver salutato il collega, Fava si diresse verso la sua auto, doveva raggiungere il Teatro Verga di Palermo per prendere sua nipote Francesca. Il giornalista arrivò a destinazione, ma non riuscì nemmeno ad aprire lo sportello della sua Renault 5 che fu colpito alla nuca da cinque colpi di pistola calibro 7,65. E’ in questo modo che morì la penna coraggiosa di Pippo Fava.
Il giornalismo di Fava
Fava si laureò in Giurisprudenza, ma alla carriera forense, preferì la professione di giornalista. Iniziò a collaborare con diversi quotidiani tra cui “La Domenica del Corriere”, poi nel 1956 divenne caporedattore dell”Espresso di sera”. Il giornalista siciliano scriveva di cinema e calcio, ma i suoi articoli migliori parlavano di mafia. Fava nutriva anche una forte passione per la scrittura che lo portò a pubblicare diversi romanzi, come “Prima che vi uccidano”. Nel 1980 divenne direttore del “Giornale del Sud” e fece del giornale un quotidiano coraggioso, fino a quando fu licenziato. Ma questo, non fu altro che un preambolo della vera opera che Fava mise in piedi. Infatti da lì a poco, fondò la rivista de “I Siciliani”, che nonostante le gravi condizioni economiche in cui versava, riusciva a far sentire la sua voce. A quel tempo l’unico modo per fare informazione seria era quello di possedere un proprio giornale.
Fava nei suoi articoli spiegava dettagliatamente il vero volto della mafia. Infatti raccontò che Cosa nostra era un’organizzazione capace di manovrare migliaia di miliardi di lire e per questo era in grado “di armare eserciti, possedere flotte, avere un’aviazione propria”. Ma era anche capace di controllare il consenso elettorale, grazie ai voti che aveva a disposizione e con questo decretava l’ascesa e la caduta di uomini politici ed economici. Oltre a questo Fava spiegò come funzionava la mafia moderna, quella che trafficava in droga e armi e utilizzava l’apparato statale come scudo. Fava ipotizzò anche dei collegamenti tra mafia-politica-banche. Uno degli articoli più importanti da lui firmati, era intitolato “I quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa” dedicato ai quattro maggiori imprenditori catanesi, Rendo, Graci, Costanzo e Finocchiaro, in cui spiegò chi comandava a Catania, in Sicilia e in Italia.
Il 28 dicembre 1983, Fava, intervistato da Enzo Biagi nella trasmissione “Film Story” in onda su Rai Uno, rilasciò delle importanti dichiarazioni su dove fosse annidata la mafia: “I mafiosi sono in ben altri luoghi e in ben altre assemblee. I mafiosi stanno in Parlamento, i mafiosi a volte sono ministri, i mafiosi sono banchieri, i mafiosi sono quelli che in questo momento sono ai vertici della Nazione. Se non si chiarisce questo equivoco di fondo – cioè non si può definire mafioso il piccolo delinquente che arriva e ti impone la taglia sulla tua piccola attività commerciale, questa è roba da piccola criminalità che credo abiti in tutte le città italiane ed europee – il problema della mafia è molto più tragico e importante, un problema di vertici di gestione della Nazione che rischia di portare al decadimento politico, economico e culturale l’Italia. I mafiosi non sono quelli che uccidono, quelli sono gli esecutori, anche ai massimi livelli”.
L’incisiva attività giornalistica di Fava portò il boss di Cosa nostra catanese Nitto Santapaola a comandare la morte del giornalista, perché come rivelò il pentito Maurizio Avola, Santapaola motivò l’ordine dicendo che: “Dobbiamo farlo non tanto o non soltanto per noi. Lo dobbiamo ai cavalieri del lavoro perché se questo continua a parlare come parla e a scrivere come scrive, per i cavalieri è tutto finito. Per loro e per noi”.
Le intimidazioni contro Fava erano già iniziate, ma ciò che fece scattare la paura nel giornalista, fu il dono di una ricotta e una cassa di spumante da parte del cavaliere Gaetano Geraci (editore del “Giornale del Sud”), tra il Natale e capodanno del 1983. In quei giorni Fava si armò anche di una pistola per paura che potesse capitargli qualcosa. I killer di Cosa nostra non tardarono ad arrivare e il 5 gennaio 1984 uccisero Fava nella sua auto.
Dopo la morte
Al funerale del giornalista non si presentarono tante persone. Il sindaco di Catania Angelo Munzone rilasciò ai giornali alcune parole da cui emerse l’ostilità nell’indagare sui retroscena dell’omicidio, che coinvolgessero Cosa nostra. “Catania è una città che non ha la mafia. La mafia è a Palermo” disse il sindaco. L’onorevole Nino Drago sollecitò una rapida chiusura delle indagini, perché “i cavalieri del lavoro potrebbero decidere di trasferire le loro fabbriche al Nord”.
Dopo alcuni anni si ipotizzarono piste più improbabili per cancellare la realtà dei fatti, come quella del movente economico. I conti di Fava furono messi sottosopra per cercare una prova, ma all\’interno erano rimasti pochi spiccioli. C’era chi sosteneva che Fava fosse un “puppo” pronto ad adescare bambini o chi diceva che dietro l’omicidio si nascondeva una “questione di femmine”.
La svolta all’interno delle indagini arrivò grazie al collaborare di giustizia Maurizio Avola, che si autoaccusò dell’omicidio e iniziò a ricostruire la vicenda. Grazie a questo, si riaprì il caso e nel 1998 nel processo “Orsa Maggiore 3” furono condannati all’ergastolo Nitto Santapaola, come mandante, Francesco Giammuso, Marcello D’Agata e Vincenzo Santapaola, come organizzatori, e come esecutori insieme al reo confesso Maurizio Avola, c’era anche Aldo Ercolano. La Corte d’Appello poi assolse Giammuso, D’Agata e Vincenzo Santapaola e confermò le altre condanne all’ergastolo. Nel 2003 la Corte di Cassazione rettificò la sentenza d’Appello per Santapaola ed Ercolano, invece Avola fu condannato a solo sette anni di reclusione per aver collaborato.
Fava era un uomo la cui essenza emerge dalle sue opere letterarie, da cui emerge una forte passione per la sua terra. Un sentimento che si è unito all’impegno e al coraggio civile, grazie ai quali Fava con le sue parole ha illuminato le menti degli italiani. Fava si era schierato a favore della verità. Una verità semplice, ma difficile da portare avanti in questo Paese. E come disse fino all’ultimo: “A che serve vivere, se non c’è il coraggio di lottare?”.