Alla sbarra anche il boss Nicolino Grande Aracri e il suo puledro Antonio Rocca. I Pm della Dda hanno chiesto complessivamente 213 anni di carcere
Il giorno del giudizio è arrivato. Il collegio dei giudici presieduto da Ivano Brigantini ha fissato per giovedì mattina la lettura della sentenza di primo grado per gli imputati del filone principale del processo Pesci. Accusati di estorsioni, minacce, detenzione abusiva di armi, tutti reati aggravati dall’associazione a delinquere di stampo mafioso, alla sbarra ci sono sedici imputati, tra cui il boss della cosca di ’ndrangheta cutrese Nicolino Grande Aracri, che per la prima volta deve rispondere di accuse così pesanti al nord, e il suo sgherro nel Mantovano, il muratore trapiantato a Pietole Antonio Rocca. Per loro, enhtrambi ancora in cella, i Pm della Dda bresciana, Claudia Moregola e Paolo Savio, hanno avanzato le richieste più pesanti: trent’anni di carcere ciascuno. Quattordici anni per Deanna Bignardi, fida compagna di Rocca, e due per il figlio Salvatore. Per Gaetano Belfiore, genero del boss, richiesta di 13 anni, 12 invece per Alfonso Bonaccio, un altro compare della cosca; sei anni per Antonio Floro Vito, 15 anni per Rosario Grande Aracri e 13 per Salvatore. Sette anni per Antonio Gualtieri, 24 per Giuseppe Lo Prete, detto Pino il fabbro. Quattro anni per Giacomo Marchio, l’imprenditore vittima della cosca che secondo i Pm avrebbe tenuto un comportamento omertoso durante le indagini. Vent’anni la richiesta per il muratore Salvatore Muto, e sette anni per l’industriale del ferro veronese del ferro Moreno Nicolis. Otto anni per i due imprenditori Danilo ed Ennio Silipo.
Richieste molto pesanti, maturate sulla scorta delle indagini dei carabinieri del nucleo investigativo di Mantova e dei racconti dei testimoni in oltre un anno di udienze. Due le parti civili: l’imprenditore Matteo Franzoni e l’associazione Libera.
La Dda ha già in mano le sentenze del processo d’Appello per gli imputati che avevano scelto il rito abbreviato: l’imprenditore Antonio Muto, tuttora ai domiciliari per un’inchiesta della Guardia di Finanza di bancarotta fraudolenta, è stato assolto dall’accusa di aver fiancheggiato la cosca. Francesco Lamanna, il referente del boss per i cantieri cremonesi, rivale storico di Rocca, condannato in primo grado a 9 anni e 4 mesi, ha visto aumentare la sua pena a 10 anni e 4 mesi.. Per Alfonso Martino, già condannato a Reggio Emilia a 9 anni di carcere, i giudici dell’Appello hanno confermato la condanna in primo grado a 8 anni. Riduzione di pena invece per Paolo Signifredi, il liquidatore, uomo dei conti di Nicolino: 5 anni e 27 giorni di reclusione, in considerazione del suo stato di pentito.
E’ ancora in alto mare, invece, il filone delle corruzioni per l’affare Lagocastello, che vede alla sbarra ancora Antonio Muto, accusato di aver tramato e cercato complici, esercitando pressioni su ministero e Consiglio di Stato per far togliere il vincolo di non edificabilità all’area sulla sponda sinistra del Mincio dove voleva realizzare un megacomplesso residenziale con duecento villette e un hotel. A fargli compagnia l’ex sindaco di Mantova Nicola Sodano, l’affarista veronese Attilio Fanini, l’ex presidente del Consiglio di Stato Pasquale De Lise, i due ex senatori di Forza Italia Luigi Grillo e Franco Bonferroni e l’ex consigliere comunale di Reggio Emilia Tarcisio Costante Zobbi. Il processo, spedito a Roma dal giudice di Brescia Vincenzo Nicolazzo, deve ancora prendere il via. La prossima udienza, l’11 dicembre, sarà aperta dal pubblico ministero a cui spetterà il compito di esporre gli esiti delle indagini ed elementi di prova. L’ex sindaco di Mantova Sodano deve rispondere di altre due accuse: di peculato per aver speso i soldi del Comune in un viaggio a Roma per la vicenda Lagocastello, e di corruzione, insieme a Domenico Laratta, per la nomina di quest’ultimo alla fondazione università, che Sodano avrebbe caldeggiato in cambio di prestazioni professionali.