La commissione Antimafia ha approvato la relazione finale mettendo sotto i riflettori Juventus, Napoli, Genova, Catania e Lazio. «Il rapporto tra la mafia e le tifoserie – si legge nel documento – è la porta d’ingresso che consente alla criminalità organizzata di tipo mafioso di avvicinarsi alle società per il tramite del controllo mafioso dei gruppi organizzati
Il calcio è malato. Lo sappiamo da tempo. Ma la lettura del rapporto dell’Antimafia apre scenari nuovi e più inquietanti. Perché sono emersi rapporti tra organizzazioni criminali e mafiose e le tifoserie, tra le mafie e le società sportive e gli stessi giocatori. L’Antimafia ha approvato una relazione finale. «Il rapporto tra la mafia e le tifoserie – si legge nel documento – è la porta d’ingresso che consente alla criminalità organizzata di tipo mafioso di avvicinarsi alle società per il tramite del controllo mafioso dei gruppi organizzati; le forme di estremismo politico che in essi allignano, inoltre, rischiano creare saldature con ambienti criminali mafiosi ancora più preoccupanti per la sicurezza e la vita democratica.Ferma restando la capacità di infiltrazione della mafia in ogni ambito ove si prospettano opportunità di illecito arricchimento, tale avvicinamento è consentito anche dalla concomitanza di alcuni fattori di debolezza delle società sportive che si traducono in fattori di rischio per l’intero sistema calcistico.
Il principio della responsabilità oggettiva pone in posizione di soggezione le società rispetto alle tifoserie organizzate che la utilizzano come arma di ricatto in cambio di benefit economici. Il rapporto con i tifosi è ulteriormente complicato dalla base sociale delle tifoserie ultras, considerando l’estrazione, in buona parte criminale, dei capi delle loro frange estreme. Questi ultimi spesso sono soggetti pluripregiudicati per gravi reati, e per questo anche invisi alla maggioranza dei normali sostenitori delle squadre, semplici appassionati che assistono inermi a manifestazioni violente o minacciose che non hanno niente a che vedere con i valori dello sport. Questo fa sì che le “norme di spettacolo”, che valgono negli altri settori dello stadio, non vengano rispettate nell’ambito delle curve: è tollerato, infatti, che nelle curve non venga rispettata la norma che lega il posto a sedere a un nominativo specifico. I tifosi esercitano di fatto un «controllo del territorio» all’interno dello stadio e ci sono settori che si presentano come vere e proprie «zone franche», seppure indirettamente controllabili attraverso un monitoraggio a distanza con strumenti tecnologici sempre più sofisticati. Al riguardo rileva inoltre che le infrastrutture sportive non sono sempre all’altezza: gli impianti, siano essi di proprietà delle società o siano di proprietà pubblica, devono essere dotati di strumenti di controllo che garantiscano la sicurezza e l’individuazione dei soggetti che violano le norme di comportamento all’interno dello stadio e che per questo dovrebbero subire più severe sanzioni anche da parte delle società. Queste riflessioni devono trovare un punto di sintesi con quanto si coglie nelle scelte del legislatore così come nell’analisi del problema condotta dai responsabili della sicurezza nazionale».
Scenario inquietante
Dunque, pur non volendo cadere nell’errore di una relazione “scandalistica”, l’Antimafia rappresenta uno scenario davvero inquietante. Molti capitoli, come la vicenda del rapporto tra la Juventus e la ‘ndrangheta sono stati all’attenzione dell’opinione pubblica in questi mesi, per cui della relazione vogliamo riportare le parti più innovative.
«L’estrazione in buona parte criminale dei rappresentanti dei gruppi organizzati è l’humus ideale per consentire l’infiltrazione della criminalità̀ organizzata di tipo mafioso. Le vicende che hanno di recente riguardato squadre di calcio come Juventus, Napoli, Catania, Genoa, Lazio, solo per citare i casi di cui si è occupata la Commissione, consegnano un quadro variegato. Dall’inchiesta della Commissione è emerso che a Torino la ‘ndrangheta si è inserita come intermediaria e garante nell’ambito del fenomeno del bagarinaggio gestito dagli ultras della Juventus, arrivando a controllare i gruppi ultras che avevano come riferimento diretto diverse locali di ndrangheta; in alcuni casi i capi ultras sono persone organicamente appartenenti ad associazioni mafiose o ad esse collegate, come ad esempio a Catania o a Napoli; in altri casi ancora, come quello del Genoa, sebbene non appaia ancora saldata la componente criminalità̀ organizzata con quella della criminalità̀ comune, le modalità̀ organizzative e operative degli ultras vengono spesso mutuate da quelle della associazioni di tipo mafioso».
Osmosi criminale tra ultras e mafie
Quello appena citato è uno dei passaggi chiave della relazione di Palazzo San Macuto dove il gruppo di lavoro guidato dal deputato Pd Marco Di Lello ha sentito diversi rappresentanti delle società calcistiche, magistrati e forze di polizia.
«Le risultanze dell’inchiesta parlamentare hanno consentito di rilevare varie forme, sempre più profonde, di osmosi tra la criminalità organizzata, la criminalità̀ comune e le frange violente del tifo organizzato, nelle quali si annida anche il germe dell’estremismo politico. Il fenomeno della politicizzazione del tifo organizzato è un fenomeno antico ed è un dato di comune conoscenza la distinzione delle tifoserie sulla base dell’orientamento ideologico di estrema destra o di estrema sinistra. Tuttavia, crea inquietudine la presenza di tifosi ultras in tutti i recentissimi casi di manifestazioni politiche estremistiche di destra, a dimostrazione che le curve possono essere “palestre” di delinquenza comune, politica o mafiosa e luoghi di incontro e di scambio criminale».
«La questione dell’infiltrazione mafiosa nei gruppi ultras si lega necessariamente al tema della sicurezza degli stadi, che sono frequentemente ostaggio delle tifoserie organizzate, come ha evidenziato il prefetto Franco Gabrielli, Capo della Polizia: “Effettivamente, come dimostrano i 75 incontri di calcio caratterizzati da scontri durante questa stagione [2016-2017], tali criticità̀ rappresentano ancora oggi uno dei fronti più impegnativi per l’azione di tutela dell’ordine pubblico coordinata dalle autorità̀ provinciali di pubblica sicurezza. Ricordo soltanto che al 31 marzo scorso sono stati impiegati, in occasione delle partite di calcio, contingenti delle forze di polizia pari complessivamente a oltre 165 mila unità”».
«Nelle curve, infatti, l’anarchia nella gestione degli spazi, rispetto ai criteri di assegnazione dei posti dettati dal sistema di vendita dei biglietti, per i tifosi più estremi è anche funzionale a rendere più difficile l’identificazione dei singoli individui, dal momento che viene di fatto impedita la mappatura dei settori dello stadio sulla base dell’abbinamento tra il nominativo dell’acquirente e il posto assegnato dal sistema informatico di prenotazione. Il rispetto di tale regola, attribuito alla vigilanza degli steward, è generalmente garantito in tutti i settori dello stadio differenti dalle curve, anche se non mancano ulteriori eccezioni».
L’arma del ricatto
«La forza di intimidazione delle tifoserie ultras all’interno del “territorio-stadio” è spesso esercitata con modalità che riproducono il metodo mafioso; unitamente a ciò̀, la condizione di apparente extra-territorialità̀ delle curve rispetto all’autorità ha consentito ai gruppi di acquisire e rafforzare il proprio potere nei confronti delle società sportive e dei loro dipendenti o tesserati. La situazione è ulteriormente aggravata, dal punto di vista delle società, dalla base sociale delle stesse tifoserie, formate da significativi contingenti di persone pregiudicate, in alcuni casi vicini al 30% del totale, secondo le stime delle forze di polizia».
«I comportamenti violenti e antisportivi vengono utilizzati come armi di pressione e di ricatto al fine di barattare il tranquillo svolgersi delle competizioni sportive con vantaggi economici pretesi dalle società come biglietti omaggio, merchandising, contributi per le trasferte eccetera. Gli ultras utilizzano, infatti, come strumento di ricatto sulle società̀, la responsabilità̀ oggettiva – prevista dagli articoli 11, comma 3, 12, comma 3, e 14 del codice di giustizia sportiva della FIGC – che espone la società̀ a sanzioni per i comportamenti violenti o discriminatori posti in essere dai suoi sostenitori. Il principio della responsabilità oggettiva previsto dal codice di giustizia sportiva ha avuto indubbi meriti perché́ ha consentito, da un lato, di contenere gli episodi di violenza dei tifosi (in una fase storica in cui non vi erano i mezzi tecnici per identificare i colpevoli) e, dall’altro, in tema di match fixing, di funzionare da deterrente nei confronti dei giocatori intenzionati a commettere illeciti».
«Gli approfondimenti della Commissione hanno preso le mosse da vicende giudiziarie, che hanno visto coinvolti soggetti a vario titolo riconducibili a organizzazioni criminali mafiose o comunque ad esse in qualche modo collegate, in cui appaiono altresì̀ presenti tesserati di società̀ calcistiche professionistiche: in particolare, l’attenzione si è soffermata su Catania, Napoli, Juventus, Genoa, Lazio e Latina. Per quel che riguarda il Crotone calcio, invece, nonostante la procura distrettuale di Catanzaro abbia recentemente proposto l’applicazione di misure di prevenzione di natura sia personale sia patrimoniale, che avevano ad oggetto la stessa società̀ di calcio, nei confronti dei fratelli Raffaele e Giovanni Vrenna, proprietari della società, il tribunale di Crotone e la corte d’appello di Catanzaro hanno tuttavia ritenuto di non accogliere tale richiesta».
«La possibile evoluzione progressiva dello spessore criminale dei componenti dei gruppi ultras è emersa con particolare chiarezza dai lavori del IX Comitato, quando è stata approfondita la situazione della tifoseria del Catania calcio, attualmente militante in serie C, che richiama alla memoria la tragica morte dell’ispettore di polizia, Filippo Raciti – ucciso da alcuni ultras a Catania il 2 febbraio 2007 nel corso dei disordini scatenati dalle tifoserie al termine del derby tra Catania e Palermo, all’epoca in serie A – e che portò alla sospensione dei campionati e all’adozione di una normativa ancor più rigorosa in tema di sicurezza negli stadi».
Mafiosi capi ultrà
«Ulteriori attività investigative svolte negli anni successivi nei confronti della tifoseria hanno consentito di accertare che “alcuni leader dei gruppi ultras maggiormente rappresentativi all’interno del locale stadio Angelo Massimino vantavano rapporti diretti con la criminalità̀ organizzata mafiosa, sia per i legami di parentela con alcuni esponenti, sia per i precedenti penali specifici che gli stessi annoveravano”. In particolare: il leader indiscusso del gruppo degli “irriducibili”, Rosario Piacenti, appartenente alla famiglia mafiosa dei “Picanello”- con precedenti per porto e detenzione di armi, resistenza e violenza a pubblico ufficiale – e un altro leader dello stesso gruppo, Stefano Africano, nel 2016 sono stati condannati per tentata estorsione aggravata dalla finalità di agevolare l’associazione mafiosa dei “Cursoti” ai danni del giocatore del Catania Marco Biagianti8; il leader di un altro gruppo ha precedenti penali per traffico di sostanze stupefacenti ed è ritenuto vicino al clan Karatè di Cappello; il capo del gruppo “Schizzati-Passarello” – che ha precedenti penali per reati inerenti agli stupefacenti – è figlio di un elemento di spicco del clan mafioso dei Cappello; sempre vicino al clan dei Cappello è il leader di un ulteriore gruppo, con precedenti penali per detenzione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti; infine, il capo di un altro gruppo ancora è ritenuto vicino allo storico clan mafioso dei Santapaola.
Le conseguenze di una simile “colonizzazione” dei vertici dei gruppi ultras sono evidenti: “questi rapporti non solo influiscono, naturalmente, sull’egemonia che gli stessi leader riescono ad avere ed esercitano all’interno dei loro gruppi, ma non si esclude che possano tradursi, pur senza una spendita esplicita del nome della consorteria mafiosa, in tentativi di ingerenze della criminalità̀ organizzata insieme alle dinamiche calcistiche, intese queste ultime sia come scelte di amministrazione e di gestione societaria, sia come tentativi di vessazione e di costrizione posti in essere nei confronti di soggetti protagonisti del calcio professionistico».
L’estorsione al calciatore
«Al riguardo, la sentenza richiamata sul caso Biagianti è emblematica: il giocatore, ancora oggi capitano della squadra, viene avvicinato dai due capi ultras Piacenti e Africano che tentano di estorcergli una somma di denaro di 5 mila euro al fine di poter sostenere, come accerterà̀ il tribunale, alcune “spese processuali”, con chiaro riferimento alla loro appartenenza ad ambienti criminali. Il giocatore, intimidito dal chiaro contesto criminale mafioso, non si è costituito parte civile al processo e in quella sede ha sostenuto la tesi difensiva degli imputati – poi smentita dal tribunale – secondo la quale i soldi gli erano stati chiesti come forma di sostegno alla tifoseria delle spese attinenti alle coreografie».
«Il quadro tipico delle regioni a tradizionale insediamento mafioso che è emerso a Catania e i connessi, molteplici, profili di rischio che subiscono le proprietà e i tesserati della società in siffatto contesto ambientale è stato oggetto di dibattito in Commissione anche durante le audizioni dei magistrati della DDA di Napoli. Gli approfondimenti hanno avuto ad oggetto la vicenda dell’accertata presenza di Antonio Lo Russo – diventato collaboratore di giustizia – ex boss del clan dei «capitoni» di Secondigliano, che si trovava a bordo campo durante la partita Napoli-Parma del 10 aprile 2010 allo stadio San Paolo di Napoli. Dopo un preliminare chiarimento sullo stato di latitanza di Antonio Lo Russo che decorre dal 5 maggio 2010 – circa un mese dopo l’incontro Napoli-Parma, del quale si è parlato anche per il risultato imprevisto della sconfitta del Napoli – è emerso che la presenza del boss a bordo campo era tutt’altro che occasionale e non si limitava a quella partita».
Il latitante il campo
«Antonio Lo Russo, attualmente collaboratore di giustizia, ha dichiarato, in ordine al modo in cui riusciva ad avere accesso a bordo campo, che la “persona che l’aveva messo in contatto con questo vivaio (…) era un capo ultrà successivamente deceduto per cause naturali” e che “era sua abitudine andare a bordo campo non solo a Napoli, ma anche in trasferta proprio in quanto appassionato e tifoso del Napoli, non ha sottaciuto anche l’esistenza di rapporti di amicizia con diversi calciatori che hanno giocato nel calcio, ma ha escluso categoricamente ogni tipo di rapporto con la Società̀ Calcio Napoli».
«Appare significativa ai fini della presente inchiesta che, anche in questo caso, sia un tifoso ultras l’intermediario tra il Lo Russo e la società̀ fornitrice dei servizi di manutenzione del campo di gioco, con la quale peraltro la SSC Napoli, una volta venuta a conoscenza della vicenda, ha deciso di concludere il rapporto contrattuale in essere, come ha riferito in audizione Alessandro Formisano, head of operations, sales & marketing della S. calcio Napoli».
«Il tema del rapporto tra tifoserie e criminalità̀ organizzata allo stadio San Paolo era già emerso il 20 ottobre 2014 durante l’audizione presso il IX Comitato del capo della Digos di Napoli, Luigi Bonagura: “Ovviamente, i vari gruppi ultras sono espressione dei clan, non fosse altro che per la loro origine territoriale. Il gruppo ultras Rione Sanità, ovviamente, ha le sue radici all’interno del Rione Sanità. I componenti del gruppo Rione Sanità hanno sicuramente, se andiamo a verificare e a fare dei controlli, contatti con gli esponenti della criminalità̀ che operano all’interno del Quartiere Sanità. Tuttavia, nel momento in cui si recano allo stadio, questi ragazzi, queste persone ci vanno per tifare per la loro squadra del cuore. Non abbiamo riscontri che ci facciano pensare ad attività diverse. Il fatto che la camorra possa avere interesse per il calcio scommesse e per altri fenomeni collegati con il mondo del calcio è sicuramente vero e possibile”».
La camorra divisa su due curve
«Medesima lettura “territoriale” emerge dalla citata audizione della procura distrettuale di Napoli: “È un dato notorio che all’interno dello stadio San Paolo esista una suddivisione tra la curva A e la curva B, che in qualche modo rispecchia anche una provenienza territoriale della tifoseria, dove per provenienza territoriale ovviamente mi riferisco, non solo ma anche, purtroppo, ai gruppi camorristici. Dicevo che è dato notorio perché sono le stesse tifoserie o almeno parte delle curve a ostentare la loro provenienza territoriale, quindi possiamo sicuramente affermare che la curva B è la curva appannaggio del clan Lo Russo, sulla quale all’epoca Antonio Lo Russo aveva influenza, mentre la curva A sicuramente è una curva nella quale ha ingresso una tifoseria con una provenienza territoriale diversa, mi riferisco al centro di Napoli. È notorio come «Genny ‘a carogna» provenga da quella curva e non dalla curva B”».
Il citato Gennaro De Tommaso, detto appunto «Genny ‘a carogna», della curva A – che proviene da famiglia di camorristi con precedenti per usura, riciclaggio, traffico di sostanze stupefacenti – è il capo ultras che si distinse in negativo nella finale di coppa Italia Napoli-Fiorentina disputata allo Stadio Olimpico di Roma il 3 maggio 2014. Come emerso durante l’audizione in Comitato del capo della DIGOS di Roma, Diego Parente, del 20 ottobre 2014, De Tommaso “vive stabilmente in un contesto criminale ed è lui stesso un trafficante di stupefacenti. Gennaro De Tommaso è anche leader di uno dei tanti gruppi ultras organizzati che popolano le due curve dello Stadio San Paolo. Ovviamente, persone gravate da precedenti, anche gravi, all’interno dello Stadio San Paolo ne troviamo parecchie. Forse facciamo prima a escludere quelle che non ne hanno”. La sera della finale di Coppa Italia De Tommaso si mise in luce per due episodi: “C’è l’episodio pre-partita, quando lui si è materializzato, insieme a un altro centinaio di tifosi, in piazza Mazzini, in una località̀ che non era di quelle destinate ai tifosi del Napoli. A capo di questi cento tifosi è stato bloccato, perché individuato proprio da una mia pattuglia mentre faceva attività̀ di perlustrazione. Benché́ fossero privi di vessilli, dalla parlata si è capito che si trattava dei tifosi partenopei. Peraltro, erano parzialmente travisati con sciarpe, bandane e oggetti ovviamente fuori luogo, considerata la data del 3 maggio. Tali tifosi sono stati circoscritti anche con l’impiego di reparti organici e sono stati portati allo stadio per evitare che entrassero in contatto con le tifoserie della Fiorentina. Essi hanno opposto alcuni tentativi di resistenza, con lancio di oggetti e di artifizi pirotecnici contro le forze dell’ordine, proprio per superare questa forma di tutela che era stata posta nei loro confronti. Dopodiché́, si è verificato l’episodio famoso, immortalato da tutte le TV, di De Tommaso Gennaro che parla con il capitano del Napoli. Tutto questo è diventato un unico procedimento penale, per il quale recentemente sono state eseguite delle misure cautelari a carico di De Tommaso e di altri quattro tifosi del Napoli, quelli su cui poi noi siamo riusciti a raccogliere elementi certi di responsabilità̀ in ordine alle condotte delittuose perché́ ripresi dalle telecamere mentre di fatto lanciavano oggetti e portavano in essere comportamenti violenti”22.
La sera della finale, in un agguato furono esplosi alcuni colpi di arma da fuoco che ferirono gravemente un tifoso del Napoli, Ciro Esposito. Si accertò che il colpo era stato esploso da un ultras romanista, che già, nel 2004, aveva fatto sospendere un derby diffondendo la notizia falsa secondo la quale la Polizia aveva travolto e ucciso un ragazzino fuori dallo stadio Olimpico. Ciro Esposito, ricoverato in ospedale, morì due mesi dopo».
«Diffusasi la notizia del ferimento, si creò tra i tifosi ultras “un’agitazione fortissima” e ci fu un’intensa attività̀ di polizia al fine di gestire una situazione con alti profili di rischio per l’ordine pubblico. In quella situazione Gennaro De Tommaso, che peraltro quella sera indossava una maglietta che inneggiava alla liberazione dell’omicida di Filippo Raciti, ebbe modo di conquistare la scena pubblica, anche interloquendo con il capitano del Napoli, Marek Hamsik, e la partita ebbe inizio. Sull’opportunità̀ di quella scelta si è soffermato il presidente dell’Associazione italiana calciatori, Damiano Tommasi nella sua audizione in Commissione: “Se ricordate, in quell’occasione è stato chiamato il capitano del Napoli a interloquire con la curva occupata in quel momento dai tifosi napoletani. Questo ragazzo – era Marek Hamšik ovviamente – si è trovato a rivestire un ruolo che forse non è consono al ruolo che, in realtà, bisognerebbe che avessero i calciatori in campo”».
L’amicizia tra il boss e il campione
Affrontando poi il tema delle relazioni tra mafie e giocatori, la relazione si imbatte ancora in una vicenda che riguarda un ex giocatore del Napoli, Ezequiel Lavezzi.
«Un altro caso assai noto di frequentazioni “pericolose” da parte di calciatori è quello del rapporto tra Antonio Lo Russo e Ezequiel Lavezzi, giocatore del Napoli. Il rapporto di conoscenza di Lavezzi e Lo Russo, come riferito dal sostituto procuratore distrettuale di Napoli, Enrica Parascandolo, “è un dato investigativo che è emerso già dal 2010- 2011. In particolare, mi riferisco al noto processo nei confronti di Potenza Bruno, Iorio Marco e altri, nell’ambito del quale è stato sentito come testimone, quindi in un’aula di giustizia (…) il giocatore Lavezzi. È stato sentito perché ancor prima era stato sentito dai pubblici ministeri titolari di quelle indagini, in ordine ai rapporti da un lato con Antonio Lo Russo, dall’altro con il ristoratore Marco Iorio. (…) Ha detto: «io conosco Antonio Lo Russo, l’ho riconosciuto in fotografia, ammetto di aver avuto una frequentazione con lui, siamo diventati amici, mi è stato presentato non ricordo da quale capo ultrà. Veniva a casa mia, giocavamo alla Playstation insieme»”. Anche in questo caso, se ci si basa sulle dichiarazioni di Lavezzi, emerge il ruolo di un ultras come intermediario nei rapporti di Lo Russo. Un ulteriore elemento interessante anche per quanto sopra esposto è il fatto che Lo Russo nel verbale di collaborazione riferisce “di essere stato presentato al calciatore, non certo come capoclan, non certo come il figlio di Salvatore Lo Russo, ma come capo ultrà. Da lì è nata, secondo Antonio Lo Russo, un’amicizia sicuramente consolidatasi negli anni, che ha portato Antonio Lo Russo a dare al «Pocho» Lavezzi un telefono dedicato, con delle schede dedicate, i cosiddetti «citofoni». Antonio Lo Russo era un soggetto che immaginava di essere attenzionato dalle forze dell’ordine, temeva di poter essere intercettato ed era molto attento quindi nel conversare al telefono, i suoi contatti con il calciatore li aveva con delle schede cosiddette «dedicate». (…) È altrettanto notorio (…) che quando Antonio Lo Russo si è sottratto alla cattura rendendosi latitante, il 5 maggio del 2010, uno dei suoi primi pensieri è stato quello di avvisare il suo amico Lavezzi che i carabinieri lo stavano cercando, quindi ha fatto in modo che venisse avvisato affinché si disfacesse della scheda dedicata, per evitare di essere coinvolto».
Il decalogo anti-clan del Napoli
«È evidente che l’avvicinamento e la frequentazione dei calciatori, come dimostra la relativa ostentazione sui social network, serva anche in questo caso ai soggetti collusi per trarre vantaggi in termini di approvazione, di consenso sociale, di legittimazione personale e imprenditoriale al fine di ricavarne anche vantaggi economici. Tale fenomeno, in alcuni contesti territoriali, ricorre periodicamente e non ha di per sé risvolti penalmente rilevanti, ma aumenta notevolmente i fattori di rischio di infiltrazione e di condizionamento del sistema calcistico da parte della criminalità organizzata.
Il tema è stato trattato nelle audizioni dei rappresentanti del Napoli: il presidente De Laurentiis ha ricordato che al momento della stipulazione dei contratti con i giocatori “c’è anche un modello comportamentale che deve essere firmato”; l’avvocato Staiano ha esposto le misure adottate dalla società: “Sul tema rapporti tra calciatori e ambienti che possono essere discutibili, il Napoli fa questo: appena arriva un calciatore soprattutto nuovo, viene formato e gli viene spiegato anche quale può essere il rischio della piazza e cosa è bene evitare”; il dottor Formisano ha poi specificato che già da diversi anni è stato introdotto un “decalogo comportamentale” per i giocatori: “tra le cose che i calciatori non possono fare, c’è scritto espressamente che non si possono avere rapporti con tifosi e con gruppi organizzati e che, se questo dovesse accadere in maniera passiva, cioè, se loro fossero contattati, devono informare immediatamente la società, nella persona del sottoscritto (…). Questo decalogo è stato tradotto in almeno cinque lingue ed esiste in italiano, inglese, francese, spagnolo e portoghese perché la composizione della squadra prevalentemente prevede queste lingue”».
Il calcio scommesse
«Un’ulteriore motivo di preoccupazione nella vicenda che ha riguardato i fratelli Esposito – oltre a quello delle frequentazioni indebite è il fatto che a tali imprenditori sia stata contestata l’intestazione della titolarità di un’agenzia di scommesse del brand “Eurobet” a una terza persona incensurata e nullatenente, al fine di eludere misure di prevenzione di natura patrimoniale e di agevolare la commissione di delitti di riciclaggio e di reinvestimento di proventi delittuosi. Le indagini patrimoniali sul conto del formale intestatario dell’agenzia rivelavano, infatti, una situazione patrimoniale incompatibile con la capacità di spesa necessaria per sostenere l’investimento per l’apertura del punto scommesse, spesa che nel corso delle intercettazione era stata quantificata in circa 100 mila euro e sostenuta dai tre imprenditori indagati e arrestati ritenuti i reali domini dell’Agenzia.
Al di là di quello che sarà l’esito giudiziario della vicenda, essa dimostra cosa possa celarsi dietro frequentazioni “poco avvedute”: non solo soggetti presumibilmente collusi con associazioni criminali mafiose se non in esse organicamente inseriti, ma anche collegamenti attraverso intestazioni fittizie con il mondo delle scommesse clandestine, con il rischio per i giocatori di essere involontariamente accostati a vicende opache, mettendo a repentaglio la propria immagine e la propria carriera sportiva.
Negli ultimi anni il cosiddetto fenomeno del match fixing ovvero delle partite manipolate collegate a episodi di corruzione connessi alle scommesse sportive ha raggiunto preoccupanti livelli di espansione nel mondo. Com’è noto, il fenomeno delle partite truccate consiste nell’atto di influenzare irregolarmente il corso o il risultato di un evento sportivo al fine di ottenere vantaggi per sé o per altri, falsando il normale svolgimento aleatorio e imprevedibile associato all’idea stessa di competizione sportiva. Le recenti tecnologie e la possibilità di scommettere on line, inoltre, hanno contribuito ad ampliare le dimensioni di tale fenomeno al punto che, ad oggi, si tratta di un vero e proprio business multimiliardario, spesso correlato ad altre attività criminali, come ad esempio il riciclaggio».