Il 29 luglio 1983, esattamente quarant’anni fa, veniva ucciso il giudice Rocco Chinnici. Come poi avvenne anche per Falcone e Borsellino, la mafia per eliminarlo utilizzò chili di tritolo, colpendo in grande, colpendo nel mucchio. Azioni anche dimostrative che in realtà rivelano la pochezza di questa gentaglia, che pur di raggiungere il proprio scopo non bada al valore della vita di vittime inconsapevoli.
Accanto al magistrato furono ritrovati i corpi di due agenti di scorta, il maresciallo dei Carabinieri Mario Trapassi, l’appuntato Salvatore Bartolotta e anche Stefano Li Sacchi, il portiere dello stabile in cui Chinnici viveva. Si salvò solo l’autista, Giovanni Paparcuri, comunque gravemente ferito.
L’idea sopravvissuta alla morte di Rocco Chinnici è l’istituzione di un pool antimafia. Il giudice aveva chiaro che l’isolamento di chi lotta contro la mafia espone all’annientamento, alla vulnerabilità, all’oblio, poiché se ad indagare è una sola persona rimane molto esposta al rischio di attentati e se uccisa, con lei si finisce per seppellire anche la portata delle sue indagini. Un’ idea che si rivelerà fondamentale nella lotta alla criminalità organizzata, come l’intuizione di dover coinvolgere e rendere consapevoli le nuove generazioni “Parlare ai giovani, alla gente, raccontare chi sono e come si arricchiscono i mafiosi (…) fa parte dei doveri di un giudice. Senza una nuova coscienza, noi, da soli, non ce la faremo mai”.