Proprio in occasione del giorno in cui si sarebbe festeggiato il 76° compleanno, viene ricordato in un “Cilea” colmo di ragazzi, Antonino Scopelliti; pretesto, questa giornata, per aprire ufficialmente le celebrazioni per il Ventennale dal vile assassinio avvenuto per mano mafiosa del giudice reggino, allora sostituto procuratore generale della Suprema Corte di Cassazione. Riportiamo un brano tratto dal libro di Paride Leporace \”TOGHE ROSSO SANGUE\” (Newton Compton).
Una storia rimossa e dimenticata quella di Antonino Scopelliti. Era il 9 agosto 1991. In campo Piale di Villa San Giovanni, mentre torna dal mare verso casa, i killer su una moto uccidono il sostituto procuratore generale della Cassazione, Antonino Scopelliti, 56 anni, in vacanza a Campo Calabro suo paese di origine. Quando nell’impervio posto dell’agguato arriva il procuratore della Repubblica è molto turbato. Dichiara ai giornalisti: “E’ la prima volta che la mafia uccide un magistrato a Reggio Calabria”. Ma quale mafia? Quella calabrese chiamata ’ndrangheta, coinvolta in una feroce e cruenta guerra intestina tra clan rivali? O quella siciliana? Scopelliti ha cominciato a studiare le carte del maxiprocesso di Palermo. E’ un giudice che segue la linea del cosiddetto teorema Buscetta. Un replay del delitto Saetta? Oppure un patto reciproco? Non si può ammazzare un eccellente nel territorio di pertinenze delle ndrine senza averne ricevuto il consenso.
Un luogo comune non vero a quel tempo voleva la ‘ndrangheta estranea ai delitti eccellenti. Tutto frutto della scarsa conoscenza del fenomeno. Gli sgarristi calabresi hanno già ucciso due magistrati: Ferlaino a Lamezia negli anni Settanta e Bruno Caccia a Torino. Hanno ammazzato sindaci, militanti comunisti, comandanti delle stazioni dei carabinieri, agenti di custodia e un direttore delle carceri. Hanno anche ucciso Ludovico Ligato, politico democristiano ed ex presidente delle Ferrovie dello Stato.
Enzo Macrì, oggi alla Procura nazionale antimafia, subito dopo il delitto si era convinto della una pista calabrese. Poi con lo spirito critico che lo contraddistingue si rende conto che come ai tempi di Ligato, anche per Scopelliti si era registrata una tregua prima dell’omicidio e poi la fine delle ostilità. Per lui attorno al delitto si erano congiunte due esigenze: il maxiprocesso in Cassazione da una parte e un’esigenza locale dall’altra.
Due persone giunte da lontano quella sera del 9 agosto hanno già compreso molto. Camminano insieme. Gianni De Gennaro è calabrese di nascita. Lo chiamano Dick Tracy per le sue frequentazioni americane. E’ il capo della Polizia. Secondo lui Cosa Nostra cerca ancora di condizionare l’esito del maxiprocesso. I corleonesi per far ammazzare il magistrato si sono presi la difficile briga si essere pacieri nella carneficina tra i De Stefano e gli Imerti-Condello di Reggio Calabria. E’ la stessa tesi del suo amico. Si chiama Giovanni Falcone. Da febbraio è al ministero di Grazia e Giustizia alla direzione degli affari penali. Non è più un magistrato regolare. Forse si sente pure in imbarazzo a condizionare i colleghi del luogo. Era anche un conoscente personale di Scopelliti. Falcone rende pubblico il suo pensiero il 17 agosto scrivendo un articolo illuminante su La Stampa.
L’attacco del pezzo è una sorta di fucilata per far riflettere sullo stato delle cose italiane: “L’ultimo delitto eccellente- l’uccisione di Antonino Scopelliti- è stato realizzato, come da copione, nella torrida estate meridionale cosicché, distratti dalle incombenti ferie di Ferragosto e dalla concomitanza di altri gravi eventi, quasi non vi abbiamo fatto caso”. Falcone poi elenca le doti dell’ucciso: “magistrato universalmente apprezzato per le sue qualità umane, la sua capacità professionale e il suo impegno civile”. Quindi la riflessione dolorosa che tutto questo non fa più notizia: “quasi che nel nostro Paese sia normale per un magistrato- e probabilmente lo è- essere ucciso esclusivamente per aver fatto il proprio dovere”. Falcone dopo aver indicato che per la prima volta si è colpito un giudice di Cassazione affronta con il suo celebre piglio investigativo la radice del delitto: “L’eliminazione di Scopelliti è avvenuta quando ormai la suprema corte di Cassazione era stata investita dalla trattazione del maxiprocesso alla mafia palermitana e ciò non può essere senza significato. Anche se, infatti, l’uccisione del magistrato non fosse stata direttamente collegata alla celebrazione del maxiprocesso davanti alla suprema corte, non ne avrebbe comunque potuto prescindere nel senso che non poteva non essere evidente che l’uccisione avrebbe pesantemente influenzato il clima dello svolgimento in quella sede”. A Falcone non sfugge il dato territoriale dell’omicidio. Avvenuto in Calabria. Segnala il possibile collegamento tra Cosa nostra siciliana e ‘ndrangheta calabrese. Osserva e condivide “un salto di qualità” criminale. Quel 17 agosto gli italiani che sono al mare leggono forbiti editoriali sul referendum promosso da Mario Segni che vuol introdurre la preferenza unica. Gli sportivi si chiedono se la Sampdoria di Vialli ripeterà i suoi exploit, le cronache estere guardano con preoccupazione verso la Mosca della Perestroika. L’omicidio Scopelliti è già sparito dalle prime pagine. Falcone con il suo articolo ha racchiuso il contesto del delitto.
Nel tardo pomeriggio del 9 agosto la Bmw di Antonino Scopelliti viene trovata in una scarpata da una pattuglia della Polizia Stradale. Un appassionato di belle auto il magistrato di Cassazione. La Bmw gli era stata consegnata il 20 luglio a Roma. Prima di partire per le vacanze uscendo con un’amica c’era stato uno scambio di battute: “Nino è bellissima ma questo adesso quanto la cambi?”. “No, no, questa non la cambio, io con questa macchina ci muoio”. Al distaccamento della Polizia stradale di Villa San Giovanni il 9 agosto una telefonata anonima ha segnalato la presenza di un’autovettura ribaltata in una scarpata nei pressi di “Campo Piale”. Scopelliti è in vacanza “dalle sue parti” come dicono in Calabria gli emigrati. Era arrivato a fine luglio. Prima gli altri bagni sull’altra costa calabra, a Squillace, in provincia di Catanzaro dove il fratello Francesco ha una farmacia.
Scopelliti era stato avvicinato da qualcuno nelle sue ultime vacanze? Le stesse incertezze del delitto Saetta. Giudice troppo riservato per poter avere risposte sicure. La solitudine del giudice non è solo un uomo che combatte contro tutti in forme donchisciottesche. Antonino Scopelliti ha lasciato scritto in un diario non esplosivo di segreti, ma denso di riflessioni umane e professionali che “ogni processo è un processo di liberazione della verità. Del magma, delle apparenze. Il giudice lo compie in solitudine. Il giudice quindi è solo, con le sue menzogne che ha creduto, le verità che sono sfuggite…”. Scopelliti era già solo con le verità del maxiprocesso in Cassazione.
Non si preoccupa di avere una scorta. Forse si sentiva tutelato dal fatto di trovarsi nel suo paese. Tra il 6 e il 7 agosto amici e parenti dopo il suo omicidio sveleranno episodi di nervosismo e preoccupazione da parte del giudice. Una telefonata con una sua amica, la sera precedente l’agguato, ha toni poco chiari. Antonietta chiede spiegazioni e il giudice risponde: “Un’apocalisse, un’apocalisse”.
La mattina al Lido dove fa il bagno la gran parte delle persone lo ricordano sereno. Con un episodio però abbastanza anomalo. Antonino Scopelliti è in acqua che nuota con due giovani amiche. Nella scia di un motoscafo nota un involucro di plastica che contiene un oggetto. Il giudice sbianca e va in panico: «E’ una bomba, una bomba per me». Le ragazze lo tranquillizzano. E’ solo una busta di rifiuti. Ma Scopelliti non ha più voglia di mare. S’infila nella Bmw. Una ruota s’insabbia. Due ragazzi lo aiutano a sbloccarla. Parte verso casa prendendo una scorciatoia. Una amica, Valeria Cardile, lo incontra e fanno un pezzo di strada insieme. Una Golf nera si accoda. Resterà sempre un’auto del mistero. A Santa Trada un saluto a Valeria, lei prosegue per Villa San Giovanni. Nino prende la via di casa. La strada è vuota. Sono le 17, 30. Un’azione da professionisti. Due colpi secchi infrangono il vetro e colpiscono il giudice alla testa. Scopelliti perde il controllo dell’auto che sbanda e prosegue per circa dieci metri finendo fuori strada, dopo aver divelto un cancelletto plana in un vigneto. Il primo allarme parla di un incidente stradale. Poi circola la voce di un suicidio. Alle 19 l’Ansa batte la notizia: “Ucciso in Calabria magistrato di Cassazione”.
In campo Piale arriva un autogru dei vigili del fuoco per recuperare la Bmw. La caricano su un camion e con un’ormai inutile scorta imponente la trasportano alla questura di Reggio Calabria. Il cadavere del giudice viene condotto all’obitorio degli Ospedali Riuniti. Sul luogo del delitto arriva il magistrato di turno. E’ milanese. Si chiama Giorgio Jachia. Alto e magro è al suo primo incarico professionale. Si è imbattuto nell’omicidio di un autorevole collega. Un altro giudice ragazzino. In molti si chiedono: se arriva Cossiga cosa dirà? Il presidente della Repubblica giunge il giorno dopo. La notizia l’ha raggiunto in vacanza a Courmayeur. Prima di salire sull’aereo ha scritto una dichiarazione che legge a Reggio Calabria in una prefettura affollata di giornalisti famelici di notizie. Questa l’allocuzione presidenziale per l’ultimo morto cui posano la toga sulla bara: “E’ con rinnovata angoscia che vengo qui testimone sgomento di un altro efferato delitto contro l’umanità e contro lo Stato… Sono qui ad onorare, a nome della nazione, il magistrato Antonio Scopelliti caduto nella lotta per il diritto e per la difesa dei principi della civile convivenza…Sono qui come capo dello Stato ad esprimere la solidarietà anche alle popolazioni calabresi, martoriate da violenze, soprusi e crimini che non meritano”. Poco dopo Cossiga attraverso il corso centrale di Reggio Calabria. Prestifilippo nota che “la gente si ritrae in un moto quasi istintivo di diffidenza e fastidio”. Siamo in un luogo che da un bel libro sulla corruzione locale scritto da Aldo Varano battezza con il titolo “La città dolente”. Città di rivolta, poi finita nel baratro. Per tornare alla normalità dovrà arrivare un bravo sindaco: Italo Falcomatà.
Alle cinque della sera come recita la poesia di Garcia Lorca, si celebrano i funerali nella piccola chiesa di Santa Maria Maddalena di Campo Calabro. Anche qui una folla mai vista. Le auto blindate, il presidente, i presidenti, il blu degli abiti estivi ministeriali. Il solito copione. La solita rabbia. Un uomo con i capelli bianchi grida contro i poliziotti: “Prima lo lasciano ammazzare e poi mettono 50 uomini a guardarlo”. Piange la gente di Campo Calabro per quel giudice che ascoltava i paesani quando veniva a fare i bagni. In tanti andavano a chiedergli consiglio e aiuto anche a Roma nella sua casa di via della Scrofa. Qualcuno forse portò al suo orecchio una proposta indecente di aggiustamento respinta con sdegno? Ascoltare e ricevere i paesani. Abitudini del Sud. Dei piccoli borghi. Gli abitanti di Campo Calabro applaudono quando la bara esce dalla chiesa. Le autorità partono. Forse fuggono dalla Calabria. Era stato così anche per Ligato. Quella volta erano in pochi. La Dc aveva mandato solo il calabrese Mario Tassone. Calabria terra difficile da capire e spiegare nei rapporti di potere.
A Campo Calabro i parenti hanno lasciato tutto intatto nella casa natale di Nino Scopelliti. Nello studio c’è la foto del 1959 quando si era laureato in Giurisprudenza a Messina, la borsa dove aveva messo anche le carte del maxiprocesso di Palermo, un tagliacarte.
Antonino Scopelliti. Alto magistrato. Lunghi anni alla Procura generale della Suprema Corte. Delegato a rappresentare la pubblica accusa in tutti i maggiori processi per terrorismo e crimini mafiosi e camorristici. Prima di essere ucciso lo avevano applicato spesso alla Prima sezione di Corrado Carnevale. Tra marzo e aprile di quell’anno è voce diffusa che Carnevale non presiederà un eventuale collegio per il maxiprocesso. Falcone e Martelli hanno iniziato a tessere la trama per evitare incertezze. Scopelliti era giudice al di sopra di ogni sospetto. Nelle sue requisitorie si era espresso per garantire “privilegi particolari e maggiore protezione” a tutti i pentiti di mafia, camorra e ‘ndrangheta “quando decidono di collaborare con la giustizia e accettano di rischiare la propria vita”. Da bambino sognava già di fare il magistrato. Anche a Milano aveva operato Scopelliti. Aveva sostenuto l’accusa in storici processi. Era lui ad aver chiesto le pesanti condanne contro Pietro Cavallero e Sante Notarnicola, i capi della prima banda di rapinatori politicizzati in Italia. Nel suo ufficio romano teneva sullo scrittoio, tra le carte processuali, un antico pensiero di Enrico De Nicola, primo presidente della Repubblica e giurista che recita nell’incipit: “Io non so concepire nulla di più alto e di più terribile che la missione del giudice”. Metodico e abitudinario, anche vanesio. Un bell’uomo. Forse parlò troppo del suo futuro incarico nel maxi processo. Forse al Palazzaccio qualcuno sapeva e informò in Sicilia. Cosa Nostra ha sempre avuto notizie riservate di questo tipo. Un puzzle rimasto con tasselli vuoti. Resta il suo omicidio eccellente.
Le carte del grande processo a Cosa Nostra erano arrivate a Campo Calabro attraverso staffette della Polizia ferroviaria e dei carabinieri. Si era offerto per sostenere la pubblica accusa. I capi bastone siciliani lo conoscevano bene. Le requisitorie in Cassazione che aveva tenuto nei ricorsi per i delitti del capitano Basile e Chinnici (un altro incrocio con il giudice Saetta) non erano state garantiste. I siciliani per risolvere quel problema dovevano parlare con i compari reggini.
Alla fine degli Ottanta la provincia di Reggio Calabria è teatro di una guerra cruenta che ogni mattina vede pubblicare sul lato destro della Gazzetta del Sud, unico quotidiano locale all’epoca, la foto di almeno un omicidio con il riquadro che mostra la foto segnaletica dell’ammazzato di turno. Una bambina di Reggio Calabria ascoltando in quegli anni i genitori commentare la morte dell’attrice Greta Garbo, abituata a quel clima di uccisioni permanenti chiederà loro: “Chi è questa Greta Garbo che hanno ammazzato?”.
La quarta guerra di ‘ndrangheta lascia al suolo almeno mille cadaveri. Una pagina nera ignorata all’epoca dalla cronaca dei giornali nazionali e ancora oggi poco studiata dagli storici. Il 13 ottobre 1985 due killer fanno fuori don Paolo Di Stefano a Reggio Calabria. La sua voce conta da Archi al Nuovo mondo. Per cinque anni si ammazzeranno in tutte le contrade e con ogni mezzo le cosche locali. De Stefano contro Condello. Attorno ai due casati gli altri gruppi che scelgono su quale versante schierarsi. Una guerra in piena regola. Non si tratta di una semplificazione giornalistica. Lo hanno spesso scritto i giudici istruttori nelle loro ordinanze: “Il termine guerra è qui usato volutamente nel significato più pieno”. Fucili da caccia grossa, autobombe, agguati in pieno centro. I giovani killer del quartiere Archi a cavallo delle moto allenati a colpire le vittime. Non si riusciva a trovare un paciere tra i due eserciti. Ma la pace fu siglata. Venne un padrino italo-americano in una famosa discoteca a stappare le bottiglie dell’armistizio? O dalla Sicilia si adoperano ad intervenire chiedendo la testa di Scopelliti? Le voci di strada contano poco.
Restiamo ai fatti. Un’informativa della Dia del 2 aprile 1993 e il sostituto Giordano per il delitto Scopelliti avvalorano la pista palermitana. La Cupola mandante dell’omicidio. Falcone aveva dato la sua visione. De Gennaro cinque giorni dopo l’omicidio aveva storicizzato le contiguità conosciute nei rapporti tra Cosa Nostra e Ndrangheta. Qualcosa di più che un buon vicinato. Due esposti anonimi contro l’avvocato calabrese Giorgio De Stefano non entrarono mai nei processi che seguirono. In questa storia non esiste una verità processuale. Ci sono spezzoni di contributi che creano un contesto. Resi possibili dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. Giacomo Lauro e Filippo Barreca quando iniziarono a parlare con i magistrati vennero identificati con le lettere Alfa e Delta. Sono loro a indirizzare le indagini sul delitto Ligato e sui misteri di una delle più potenti consorterie criminali del mondo. Con la loro collaborazione era crollato un muro. I collaboratori nella ‘ndrangheta sono numericamente pochi. Soprattutto nel reggino. L’organizzazione è familistica. Le testimonianze ai giudici provocano ergastoli contro parenti stretti consanguinei. Padri, fratelli, cugini.
Giacomo Ubaldo Lauro ha una caratura criminale internazionale. Con rapporti di autorevole peso nell’ambito del cartello degli Imerti. Informato dalla pace raggiunta con gli avversari resta interdetto alla notizia dell’omicidio del giudice. Due suoi picciotti vengono fermati. Solo una prova stub di prammatica. Fa un’inchiesta il narcotrafficante reggino. Nino Saraceno risponde: “Compare, noi abbiamo avuto morti ed ergastoli per questa guerra, nella pace non siamo stati neanche invitati. Condello mi ha detto che ci andava solo lui a fare la pace. Questa pace si è costruita sul sangue innocente del giudice Scopelliti”.
Lauro ricostruisce come una sorta di detective. Ma sempre in maniera indiretta. L’ambasciata arrivò da Nitto Santapaola ai De Stefano. Ammorbidite il giudice o trovate altra soluzione. Per la seconda soluzione era necessaria la tregua. Con annesso messaggio questa volta ai Condello. Il signore di Castellace, Nino Mammoliti, avrebbe detto al “Supremo” Pasquale Condello: “ora non si spara più fin che non lo dico io, perché si deve fare un lavoro”. Filippo Barreca, frequentatore di carceri, si presenta in aula con baldanza ad affermare “Che l’omicidio del giudice Scopelliti è stato certamente deciso o quantomeno avallato dalla Cupola reggina di concerto con la mafia siciliana”.
Pentiti se ne aggiunsero molti. Anche siciliani. Il catanese Domenico Farina sostiene di aver assistito personalmente in una casa di Africo Nuovo all’incontro tra Riina e Domenico Condello che avrebbe deciso pace e omicidio. La vulgata racconta che il capo dei capi fosse travestito da prete. Una tesi mai ritenuta credibile da uno dei più grandi conoscitori di ‘ndrangheta come Totò Delfino. Pino Marchese, cognato di Leoluca Bagarella, ha saputo dal fratello Antonio: “Che era stato fatto dai calabresi per farci un favore”. Anche Gaspare Mutolo apprende da altri in una cella di carcere che Cosa Nostra sapeva “che il dottor Scopelliti già da tempo studiava gli atti del processo ed era già sicuramente orientato per le condanne”. L’autista personale di Riina e braccio destro di Rosario Riccobono, capomandamento di Partanna-Mandello ai giudici ha raccontato la sua visione della vicenda. Autorevole, considerati gradi e frequentazioni criminali. L’omicidio Scopelliti è stato l’ultimo tentativo utile per far scadere i termini di custodia cautelare nell’ambito del maxiprocesso.
Tanti indizi e poche prove. La vicenda giudiziaria sul delitto Scopelliti vede calare il sipario il 14 novembre del 2000. La Corte d’Assise d’appello di Reggio Calabria assove Bernardo Provenzano, i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, Raffaele Ganci e Nitto Santapaola di essere stati i mandanti dell’omicidio. Il pg Fulvio Rizzo aveva chiesto sette ergastoli. Pena che avevano ricevuto in primo grado nel dicembre del 1988. Altre otto assoluzioni nei confronti della Commissione in precedenza erano state confermate in Cassazione. Totò Riina, Pippo Calò, Bernardo Brusca, Pietro Aglieri, Antonino Geraci, Salvatore Buscemi, Salvatore Montalto, Giuseppe Lucchese alla sbarra nel processo di Reggio per la morte del magistrato. Quella fase del processo ebbe un sussulto mediatico quando Totò Riina con addosso una camicia a scacchi dalla gabbia degli imputati di Reggio Calabria parla con gli inviati Aldo Varano e Pantaleone Sergi dichiarando loro che il processo era una montatura organizzata da Luciano Violante e i comunisti ai suoi danni. Un delitto senza colpevoli l’omicidio del giudice della Suprema corte. A quattro mesi dall’omicidio a Roma, il 30 gennaio del 1992 è la Waterloo per Cosa Nostra. Respinti i ricorsi di Riina e dei suoi luogotenenti. Il teorema Buscetta è valido. Per la prima volta un processo di mafia si conclude accogliendo l’impianto accusatorio. Bocciati i giudici dell’appello che avevano motivato sulle responsabilità singole demolendo il lavoro del Pool. Sconfitto il garantismo di Carnevale. I capi di Cosa Nostra devono rispondere in un nuovo processo dei delitti eccellenti di Palermo. Il delitto di Nino Scopelliti non è servito a nulla. Nessuno si ricorderà di lui e del giudice Saetta sui giornali. Una rimozione peserà per molti anni sul suo sacrificio. Antonino Caponnetto seguendo la trasmissione “Lezioni di mafia” su Raidue osserverà che sul rullo che apriva la trasmissione, tra i nomi delle vittime, non avevano posto quello del giudice calabrese. A nulla varrà la segnalazione dell’autorevole magistrato al direttore del Tg2 La Volpe. La Corte di Cassazione ha anche opposto un rifiuto ad intestare un’aula del Palazzaccio a Nino Scopelliti.
Per anni la memoria del giudice sono state le ricorrenze dell’anniversario a Campo Calabro sotto una pianta d’Ulivo dove una lapide recita «La tua parola ha spezzato il silenzio di una terra che non sa più tacere“. Poi è arrivata Rosanna. Rosanna Scopelliti. Esponente di un’antimafia che non chiede soldi e posti di potere, ma invece denuncia il Consiglio regionale della Calabria come il più inquisito d’Italia. All’ultimo anniversario della morte del padre c’erano magistrati importanti da tutt’Italia, giornalisti televisivi e altre familiari di vittime di mafia che si battono per un Sud migliore. C’era anche un’orchestra che ha tenuto un concerto. Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano ha inviato un messaggio ad una manifestazione di “Ammazzateci tutti”: “Antonio Scopelliti è stato un magistrato coraggioso, coerente e rigoroso che ha sacrificato la sua vita per le istituzioni e per la difesa della legalità”. Rosanna oggi è molto popolare in Calabria. In un sondaggio on line promosso nell’estate del 2008 dal Quotidiano della Calabria è risultata essere una delle donne tra le più apprezzate nella regione. Suo padre ne sarebbe fiero.
Giovanni Falcone nel suo libro intervista con Marcelle Padovani tornò a riflettere sulla morte di Nino Scopelliti. Considerato “imprudente” al pari di Carlo Alberto della Chiesa per il fatto di girare senza una scorta. Un altro rituale di alcuni delitti eccellenti.
Ma di Falcone rispetto a quell’omicidio restano in mente le parole che scrisse in quell’articolo dell’agosto del 1992 : “Si spera che l’ultimo infame assassinio faccia comprendere quanto grande sia la pericolosità criminale delle organizzazioni mafiose e che se ne traggano le conseguenze. Al riguardo, nel rilevare che attualmente è tutto un fiorire di ricette per battere la criminalità organizzata, ci si permette di suggerire che, ferma l’opportunità di scegliere modelli organizzativi adeguati, è giunto ormai il tempo di verificare sul campo la bontà degli stessi e, nel concreto l’effettivo impegno antimafia del governo”. Duecentottantasette giorni dopo un pezzo di autostrada saltava in aria a Capaci.