Fonte: L\’Unità – Racconta Giovanni Tizian che per ricostruire come e quanto la ‘ndrangheta abbia preso possesso di una regione virtuosa come l’Emilia-Romagna gli sia bastato seguire la “puzza”. Quella puzza che Giovanni si porta dentro da bambino, da quando in Calabria diedero fuoco alla fabbrica del nonno.
«La puzza è l’odore della distruzione dei sogni di una famiglia di realizzare qualcosa dove si è nati, è l’odore della diaspora», racconta adesso Giovanni che da bambino ha lasciato la Locride per trasferirsi a Modena. La madre, donna coraggiosa e forte, voleva un’altra vita per il figlio. Una vita lontana dalla terra che le aveva ammazzato il marito, Peppe, a soli 36 anni.
Funzionario di banca integerrimo e incorruttibile, Peppe Tizian venne ucciso nell’agosto dell’89 probabilmente perché si rifiutò di compiere operazioni bancarie sporche per i boss della zona. La sua morte è rimasta uno dei tanti omicidi senza colpevoli della Calabria. A distanza di 20 anni Giovanni ha seguito il filo rosso che unisce la Calabria al nord. Lo ha seguito facendo il giornalista precario per la Gazzetta di Modena, per Linkiesta.it, per Libera Informazione, per Narcomafie.
La maggiore organizzazione criminale del paese e probabilmente del mondo non è solo “infiltrata” nel nord ma si è radicata. La differenza non è terminologica, è basilare. In Emilia, in Piemonte, in Liguria, in Lombardia, la ‘ndrangheta non ha bisogno solo del pizzo, spiega Tizian nel libro, ma fa affari con il movimento terra, con la droga, con lo smaltimento rifiuti, con il gioco d’azzardo. E quando la mafia viene così chiaramente nominata, descritta, cesellata nei suoi movimenti ecco che si fa sentire.
Dal 22 dicembre Giovanni è sotto scorta. Come tutti quei giornalisti minacciati che rendono l’Italia un paese ancora fortemente immaturo dal punto di vista della libertà d’informazione, tanto da occupare solo il 61° posto nella classifica mondiale di Reporter Senza Frontiere.
Nella Capitale due iniziative hanno voluto dare il segno della solidarietà dei colleghi e del mondo dell’antimafia nei confronti di Tizian. Nel pomeriggio, sotto Montecitorio il sit in organizzato dal Comitato “Giornalisti senza tutele: altro che casta” (freelance, autonomi e parasubordinati di Stampa Romana ed Errori di Stampa) per sollevare il problema dei professionisti dell’informazione pagati dai 4 ai 25 euro lordi al pezzo che spesso si ritrovano a scrivere di mafie e sono esposti al pericolo non essendo nemmeno tutelati dal proprio giornale (Tizian, che ha partecipato ed è intervenuto al presidio è appunto uno di questi).
Alla sera l’incontro- dibattito con il segretario nazionale dell’Associazione Nazionale Magistrati Giuseppe Cascini (presenti anche la deputata Angela Napoli e il segretario dell’Fnsi Roberto Natale), organizzato dall’associazione per la quale il giovane giornalista ha spesso collaborato, Da Sud, e che ha anche organizzato una combattiva campagna civile di sostegno “Io mi chiamo Giovanni Tizian” (si può aderire sul sito omonimo).
Spiega Cascini che il libro di Tizian ha il merito di «rompere un velo di ipocrisia, di mostrare una realtà che il paese non vuole vedere, di rompere una linea gotica che è una linea geografica, l’illusione che sia possibile stare al di qua, che l’illegalità sia altro da me».
«Il problema è che l’Italia pensa ancora che la mafia sia un problema criminale e non anche un fatto culturale, sociale, politico, economico: non si vuole vedere da dove vengono e dove finiscono i soldi. E’ questa invece la domanda cardine».
Ma Cascini invita anche a riflettere su un punto: «20 anni fa c’è stato Mani Pulite, 20 anni fa c’è stato l’omicidio di Borsellino e 20 anni fa c’è stata la primavera di Palermo, il Paese stava reagendo, avevamo un’occasione formidabile per sconfiggere la mafia, poi è successo altro in questi 20 anni e abbiamo avuto 20 anni di anestesia totale nel dibattito pubblico, bizantinismi garantisti sul concorso esterno in associazione mafiosa». Tizian, trent’anni da compiere, dice che si sente doppiamente ricattato, dalla precarietà e dalla criminalità. Parla di «doppia ansia». Ma non ha paura. Certo, da quel 22 dicembre lui e la sua compagna, una collega, escono di meno, ma il suo lavoro continuerà a farlo. Perché è il giornalismo che gli ha dato modo di eviscerare la storia di suo padre, il rapporto con la sua terra d’origine che «è fatta di gente onesta, i giusti della Calabria non vanno dimenticati».
«Mi porto dentro il dolore di tanti calabresi, il giornalismo mi ha aiutato a canalizzare queste emozioni, per tanti anni ho messo da parte il dolore della mia famiglia, poi ho incontrato Da Sud e Libera ed è diventato impegno civile, l’esperienza personale mi ha dato dolore e rabbia ma scrivere li ha fatti diventare costruttivi». Dell’attenzione della \’ndrangheta adesso non ne vuole nemmeno parlare, «io non sono un simbolo di niente, voglio solo che la mia esperienza serva per dire che non ci devono più essere giornalisti precari perché la precarietà è simbolo di debolezza». Eroe? Neanche per sogno. «Io mi metto a disposizione di un percorso antimafia e di un percorso contro la precarietà nel giornalismo».